Corriere della Sera 29/09/14
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Il mistero dei poveri svela a chi lo
scruta che tutti gli uomini in verità sono poveri e pertanto la
povertà non riguarda solo qualcuno o un gruppo, ma tutti. Non è
però scontato accorgersene. La beatitudine evangelica, «Beati i
poveri!», traversa come un lampo che illumina l’intera storia. Gli
spiriti attenti ne sono colpiti. La beatitudine fa intuire che se è
vero che tutti siamo poveri, beati però sono solo coloro che lo
riconoscono, che non negano questa verità. In questa luce la povertà
non è una disgrazia di qualcuno, è piuttosto la grazia per
tutti.
Padre David Maria Turoldo notava già negli anni Ottanta:
«Oggi, in questo tempo così balordo e diseguale; in un tempo nel
quale sempre più si concentrano ricchezze nelle mani di pochi, e
sempre più dilaga la miseria e la fame nel mondo... Vorrei che
fossimo tutti convinti di quanto sia giusta la tesi, condivisa oggi
anche da scienziati, di rifarci alla povertà quale valore ispirante
la stessa economia». E aggiungeva: «La disgrazia sta nel negare la
povertà, invece di accoglierla, sta nel volerne uscire da soli o nel
pretendere di non appartenervi o di esserne usciti. La povertà è
una dimensione essenziale all’uomo». Di qui la forza profetica dei
poveri! È una forza che inquieta, per questo li emarginiamo, li
allontaniamo, non vogliamo vederli né ascoltarli.
La storia
della povertà è perciò una storia «sacra» del mondo perché i
poveri ne sono esenti, scartati dagli uomini, ma privilegiati da Dio.
In essa Dio e l’uomo si incontrano. Per questo i poveri e la
povertà dovrebbero rappresentare il punto di partenza per una giusta
impostazione dell’esistenza umana, compresa l’economia. «Poveri
e povertà», è sempre Turoldo che scrive, «sono essenziali al
piano della salvezza. Sono i poveri che ci salvano, anzi la povertà
è la stessa salvezza. Il mondo non può risolvere i suoi problemi,
se non sceglie la povertà come regola della sua economia». Due
studiosi di estrazione diversa, Majid Rahnema e Jean Robert, lo
sostengono anch’essi nel volume La potenza dei poveri .
E
Turoldo chiarisce: «Qui, per povertà, prima di tutto si intende
libertà dalle cose; sconfitta delle cupidigie; si intende
superamento del diritto di proprietà, almeno come è stato concepito
e gestito fino ad ora; s’intende giustizia che sia finalmente,
veramente distributiva e comunitaria. Per povertà non si intende
certo miseria, e meno ancora miserabilità: si intende che l’uomo
sia preso nel suo assoluto valore e non per quello che possiede».
Purtroppo oggi più che i beni — ce ne sono per tutti — manca il
senso del diritto di ogni uomo ad avere almeno il necessario. Per
questo la povertà e i poveri sono una profezia da ascoltare.
Ne
sono certo, padre Turoldo canterebbe con gioioso trasporto la forza
delle parole che papa Francesco ha come scolpito nella Evangelii
Gaudium : «L’opzione per i poveri è una categoria teologica prima
che culturale. Sociologica, politica o filosofica. Questa preferenza
divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani,
chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” ( Fil 2,5)...
Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto
da insegnarci... È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da
loro».
Volere «una Chiesa povera e per i poveri» significa
legarsi al Vangelo, fonte della vita cristiana, e al Vaticano II,
interpretazione alta del Vangelo per l’oggi. Terminata l’assise
conciliare, alcuni vescovi firmarono una proposta per se stessi e per
la Chiesa. Nel testo si legge tra l’altro: «Cercheremo di vivere
secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per
quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e
tutto ciò che vi è connesso... Rinunziamo per sempre all’apparenza
e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti e nelle
insegne... Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili
né conti in banca o cose del genere a titolo personale... Rifiutiamo
di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che
esprimano concetti di grandezza o di potenza... Dedicheremo tutto il
tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o
dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o
sottosviluppata».
Papa Francesco ha insistito su questa stessa
linea per il ministero del vescovo: «C’è sempre il pericolo di
pensarsi un po’ superiori agli altri, non come gli altri, un po’
principe. Sono pericoli e peccati. Ma il lavoro di vescovo è bello:
è aiutare i fratelli ad andare avanti. Il vescovo davanti ai fedeli,
per segnare la strada; il vescovo in mezzo ai fedeli, per aiutare la
comunione; e il vescovo dietro ai fedeli, perché i fedeli tante
volte hanno il fiuto della strada». Questo modello episcopale
Francesco lo vive in prima persona in Vaticano e chiede che divenga
lo stile dei vescovi e della Chiesa. È consapevole che la forza
della Chiesa non sta nella sua forma organizzativa, seppure
necessaria, e tanto meno nelle forze mondane.
Una Chiesa povera,
che si affida solo alla forza del Vangelo, è necessariamente anche
Chiesa «dei» poveri. Quest’ultimi, nella Chiesa, non sono
«utenti» o estranei su cui far cadere la propria attenzione. E
tantomeno sono un problema. Essi sono anzitutto membri a pieno titolo
della Chiesa. Semmai ne sono i primi membri, gli eredi più
autorevoli. Per questo la Chiesa non può essere — come Papa
Francesco ripete — «una Ong pietosa». La Chiesa sente i poveri
come parte di se stessa, anzi la parte da amare e da privilegiare. E
il loro nome è fraternità, familiarità, amicizia: «Il nostro
impegno — aggiunge papa Francesco — non consiste esclusivamente
in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo
Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di
tutto un’attenzione all’altro considerandolo come un’unica cosa
con se stesso... Il povero, quando è amato, è considerato di grande
valore, e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da
qualsiasi ideologia».
E il perché di tale privilegio lo spiegò
con accenti straordinari nella Veglia di Pentecoste del 2013, ai
movimenti ecclesiali. I poveri — disse Papa Francesco — per i
cristiani non sono «una categoria sociologica», ma la «carne di
Cristo». Non basta più dire che Dio si fa carne per comprendere
fino in fondo il mistero. Si deve esplicitare che Dio si fa carne
affamata, assetata, malata, carcerata... Non mancano infatti carni
«profumate» attorno a noi, anzi il giorno che la carne di Cristo fu
profumata, cominciarono subito le questioni di denaro e fu Giuda a
sollevarle. Dio si è fatto carne scartata. È questa a essere
«sacramento» di Cristo.
Le parole del Papa debbono suonare di
scandalo. Nella veglia si domandò: «Quando facciamo l’elemosina a
un povero, lo guardiamo negli occhi, gli tocchiamo la mano o gli
gettiamo la moneta?». È un interrogativo semplice, ma nella sua
concretezza lacera la coscienza e interpella tutti coloro che
incontrano i poveri. La povertà, continuò Papa Francesco, non può
essere derubricata a «categoria sociologica o filosofica o
culturale». «Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare
verso la carne di Cristo». Il richiamo si fece stringente: «E
questo vale ancora di più in questo momento di crisi. Noi cristiani
non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella
solitudine, nello scoraggiamento... Questo è un pericolo: ci
chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro
con i quali pensiamo le stesse cose... ma sapete che cosa succede?
Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala!».
La Chiesa su
questa frontiera deve misurare la sua veridicità evangelica. E a chi
teme incidenti o esagerazioni nel coinvolgersi con i poveri Papa
Francesco afferma con autorevolezza: «Io vi dico: preferisco mille
volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa
ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!». E attacca la cultura
dello scarto: «Oggi — questo fa male al cuore dirlo — trovare un
barbone morto di freddo non è notizia. Oggi è notizia, forse, uno
scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia! Oggi, pensare che
tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Questo è grave!
Non possiamo restare tranquilli!». E riportò quel midrash della
tradizione rabbinica sulla costruzione della Torre di Babele per
denunciare quanto ancora oggi la dignità di un operaio conti meno
del denaro: «Questo succede oggi: se gli investimenti nelle banche
calano un po’... tragedia... come si fa? Ma se muoiono di fame le
persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa
niente! Questa è la nostra crisi di oggi! E la testimonianza di una
Chiesa povera e per i poveri va contro questa mentalità».
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