Corriere della Sera 03/09/14
Il presidente Maroni non molla: vuole
che la Lombardia diventi una Regione a statuto speciale. Non per
sofisticate ragioni istituzionali, ma per una concretissima questione
di quattrini. Il nostro modello, spiega, è la Sicilia che trattiene
il cento per cento dei tributi raccolti sul suo territorio.
L’obiettivo è largamente condivisibile: se la Lombardia tenesse
per sé quanto i suoi cittadini pagano, potrebbe offrire servizi
pubblici migliori e contemporaneamente ridurre drasticamente la
pressione fiscale. Il governatore vuole chiedere direttamente ai
lombardi, attraverso un referendum, se sono d’accordo oppure no. La
risposta ovviamente è scontata: tutti (o quasi) ne sarebbero ben
contenti. Peccato che la questione non sia così semplice. Se lo
fosse, tutte le Regioni più ricche seguirebbero la stessa strada. Le
cinque Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta,
Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia) sono nate negli anni del
Dopoguerra per compensare le condizioni di oggettivo svantaggio delle
grandi isole e per tutelare le minoranze linguistiche. Se anche il
cento per cento dei lombardi chiedesse attraverso il referendum di
passare allo statuto speciale, non cambierebbe nulla. Perché
soltanto il Parlamento può prendere una decisione di questa natura e
lo dovrebbe fare attraverso una legge costituzionale che richiede due
passaggi sia alla Camera, sia al Senato e una maggioranza
qualificata. Insomma, un iter molto più complesso che non un
semplice referendum la cui domanda implicita è «Volete pagare meno
tasse e avere servizi pubblici migliori?». Qualcuno potrebbe
obiettare che un referendum avrebbe comunque valore politico, sarebbe
una lampante manifestazione della volontà popolare. In realtà,
proprio perché l’esito della consultazione sarebbe scontato, il
suo peso politico è inesistente già in partenza. Ma allora perché
imbarcarsi in un’impresa probabilmente inutile, ma certamente
costosa? Già, perché il problema è proprio questo: la giunta
Maroni ha messo in preventivo 30 milioni per l’organizzazione del
referendum e con i tempi che corrono non è certo una spesa
irrilevante. Ora la parola spetta al consiglio regionale che dovrà
discutere la proposta di legge sul referendum. Per approvarla serve
una maggioranza di due terzi dei consiglieri e quindi è
indispensabile il voto delle opposizioni o almeno di una parte di
esse. Maroni ha detto che «Se il Pd dirà di no, dovrà spiegare ai
cittadini perché non vuole che i lombardi si tengano i propri
soldi». Le cose, come abbiamo cercato di spiegare, non stanno
esattamente così. E Maroni lo sa. In campagna elettorale aveva
promesso: «Votatemi e io mi impegno a trattenere in Lombardia il 75
per cento delle tasse pagate dai lombardi». Un anno dopo la sua
elezione, a chi gli chiedeva conto di quella promessa candidamente
rispondeva: «Dipende da Roma perché le leggi fiscali le fa il
Parlamento». Forse che prima non lo sapeva? Ecco, se mai si facesse
il referendum e il risultato fosse il prevedibile plebiscito a favore
dello statuto speciale, Maroni ci spiegherebbe che tocca al
Parlamento cambiare la Costituzione. Ma lo sappiamo già, senza
bisogno di spendere 30 milioni per una consultazione dall’esito
scontato.
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