PIETRO DEL RE
La Repubblica - 7/9/14
ZAKHO (Kurdistan iracheno)
Parla una ragazza di 17 anni rapita dai
miliziani “In questo orrore siamo quaranta, tutte yazide”
Che cosa mi fanno? Ho troppa vergogna
per raccontarlo, e non conosco neanche le parole per descrivere il
mio martirio. Ma, la prego, mi aiuti a dire le pene che le mie amiche
ed io stiamo soffrendo». Mayat, la chiameremo così, ha 17 anni e la
voce di una bambina. Il 3 agosto scorso, durante l’offensiva
jihadista contro Sinjar, è stata rapita dai soldati dell’Is. Da
allora, con altre donne, tutte appartenenti come lei alla minoranza
yazida, è tenuta prigioniera in un villaggio nella piana di Ninive,
a Sud di Mosul.
Riusciamo a raggiungerla sul suo
cellulare dalla tenda dei suoi genitori, che hanno trovato rifugio in
uno dei campi profughi approntati nel Nord del Kurdistan iracheno.
Mayat parla un po’ di inglese, che aveva cominciato a studiare
perché le sarebbe piaciuto andare a lavorare in Germania. Nel corso
dell’intervista, quando descrive l’abominio della detenzione, la
sua voce spesso s’incrina e la ragazza comincia a piangere
sommessamente.
«La prego non scriva il mio nome, perché sono così
imbarazzata per ciò che mi infliggono. C’è una parte di me che
vorrebbe morire all’istante, sprofondare sottoterra e restarci per
sempre. Ma c’è un’altra parte che ancora spera di salvarsi e di
poter riabbracciare i genitori. È questa la parte che mi dà la forza di parlare con lei».
Dove si trova adesso?
«Non so come si chiama la cittadina
dove ci hanno portate, perché siamo arrivate di notte e perché da
allora siamo rinchiuse in una grande casa, con le finestre sempre
sbarrate, da dove non possiamo uscire perché sorvegliate a vista da
uomini armati».
Ma le lasciano usare in cellulare?
«I primi giorni, quando ci trovavano
con il cellulare in mano ce lo sequestravano immediatamente. Poi però
i nostri carcerieri hanno cambiato strategia e per ferirci
ulteriormente ci dicono di raccontare nei dettagli ai nostri genitori
quello che ci fanno. Ridono di noi perché si credono invincibili,
perché si sentono dei superuomini. Ma sono soltanto persone senza
cuore».
Posso chiederle che cosa vi fanno?
«Abusano di noi».
Quante siete?
«Nella grande casa saremmo una
quarantina. E siamo tutte vittime. I nostri aguzzini non risparmiano
neanche quelle che hanno un figlio piccolo con loro. Né salvano le
bambine: alcune di noi non hanno compiuto neanche 13 anni. Sono
quelle che reagiscono peggio a questo schifo. Ce ne sono alcune che
hanno smesso di parlare. Una s’è strappata i capelli e l’hanno
portata via».
Dove avvengono le violenze?
«All’ultimo piano della casa. Ci
sono tre stanze per le violenze. Le stanze degli orrori».
Siete spesso succubi di queste
violenze?
«Anche tre volte in un giorno. Ci
trattano come se fossimo le loro schiave. Veniamo date in pasto a
uomini sempre diversi. Alcuni arrivano addirittura dalla Siria. Ci
minacciano e ci picchiano quando tentiamo di resistere. Spesso vorrei
che mi picchiassero abbastanza forte da uccidermi. Ma sono dei
vigliacchi anche in questo: nessuno ha il coraggio di mettere fine al
nostro supplizio».
Chi sono i vostri stupratori?
«Non lo so. Alcuni sono vecchi, altri
giovani. Alcuni sono vestiti come dei militari, altri indossano gli
abiti degli arabi, altri ancora sono persone apparentemente
normalissime. La notte, anche i nostri carcerieri ci saltano
addosso».
Dove trova la forza per sperare?
«Me la dà la memoria di quella che
era la mia vita prima che cominciasse questo incubo. E anche l’amore
dei miei genitori con i quali riesco a parlare abbastanza spesso. Ma
a volte ho l’impressione di non farcela. Sento che se un giorno
questa tortura dovesse finire, la mia vita rimarrebbe per sempre
segnata da quello che sto subendo in queste settimane. Anche se
dovessi sopravvivere, non saprei come cancellare dalla mia mente le
scene di questo orrore. È anche per questo motivo che vorrei morire
subito. All’inizio chiedevamo ai nostri carcerieri che ci
uccidessero, che ci sparassero. Ma siamo troppe preziose per loro.
Alcune di noi hanno provato a impiccarsi, ma nessuna c’è ancora
riuscita».
Lo sa che le donne yazide sequestrate
dallo Stato islamico sono circa mille? E che molte di queste sono già
state convertite all’Islam, che altre sono state vendute per un
migliaio di dollari come schiave sessuali al mercato di Mosul e che
altre ancora sono già diventate mogli di qualche jihadista in Siria?
«Non sapevo che fossimo così tante a
patire questo calvario. Quanto alla Siria è una delle tante minacce
dei nostri carcerieri: ci dicono che se non collaboriamo ci
spediscono a Raqqa. Ma dopo quello che scontiamo qui come vuole che
ci intimorisca l’idea di finire in Siria? Una settimana dopo il
nostro arrivo sono venuti tre uomini molto cattivi che ci hanno
esaminate una per una, toccandoci dappertutto davanti a tutti e
spaventandoci a morte con un coltello. Dopo un’ora hanno portato
via quindici di noi. Non so dove siano finite».
Secondo le autorità irachene ci
sarebbero anche alcune donne cristiane tra le rapite. Le risulta?
«Può darsi, ma non qui, dove siamo
tutte yazide e proveniamo tutte da Sinjar. Tutti ci ripetono in
continuazione che siamo donne “infedeli”, perché non musulmane,
e che siamo di loro proprietà come un bottino di guerra. Ci
paragonano spesso a delle capre appena acquistate al mercato delle
bestie».
Attraverso intermediari sunniti, gli
operatori umanitari delle Nazioni Unite stanno cercando di
“comprare” alcune di voi al mercato di Mosul.
«Beate quelle a cui spetterà questa
sorte. Io, la sola speranza che nutro è che i peshmerga vengano a
liberarmi. I nostri carcerieri ci dicono che i jihadisti li stanno
sconfiggendo ovunque, ma per fortuna mio padre mi tiene al corrente
di quanto accade. So, per esempio, dei bombardamenti americani contro
di loro. Vorrei solo che gli americani si sbrighino a farli fuori
tutti, o che mi centrino con una loro bomba, perché io non so quanto
resisterò. Hanno già ucciso il mio corpo. Stanno uccidendo anche la
mia anima ».
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