La “rottamazione” della classe dirigente che ha retto il
centrosinistra nel ventennio berlusconiano può considerarsi
simbolicamente conclusa con il pensionamento della sua personalità più
significativa
La nomina di Federica Mogherini ad Alto commissario per la
politica estera europea segna nei fatti la conclusione della carriera
pubblica di Massimo D’Alema. È infatti assai improbabile che, sfumata
questa occasione, altre se ne ripresenteranno in Europa o in Italia. La
“rottamazione” della classe dirigente che ha retto il centrosinistra nel
ventennio berlusconiano può dunque considerarsi simbolicamente conclusa
con il pensionamento della sua personalità più significativa.
Anche la lunga storia del Pci – di cui D’Alema di fatto è stato
l’ultimo segretario, sebbene il partito non ci fosse già più – giunge
oggi al capolinea, e per dir così si estingue senza lasciare eredi.
La notizia – se così vogliamo chiamarla – è stata ignorata da tutti i
media (con la sola eccezione di una vignetta di Giannelli sul Corriere
di ieri), e anche questa è una notizia: vuol dire che l’opinione
pubblica aveva già preso atto del tramonto quando il sole ancora
indugiava rossastro sull’orizzonte, e oggi non ritiene di dover
commentare, o anche soltanto registrare, un fatto considerato già
compiuto e assimilato.
All’indomani delle sue dimissioni da palazzo Chigi, nell’aprile del
2000, D’Alema aveva cominciato a disegnare per sé un percorso
internazionale, a cominciare dal nome della sua nuova Fondazione: un po’
per un’autentica passione che gli veniva direttamente da Berlinguer, e
un po’ per tattica, perché tenersi (relativamente) lontani dalla
politica interna è il modo più efficace per rientrarvi. Andreotti, per
dire, ogni volta che perdeva la presidenza del consiglio si faceva
eleggere presidente della commissione esteri della camera.
Naturalmente, D’Alema in questi anni non è stato affatto lontano
dagli affari italiani. Anzi: secondo la regola aurea che governava il
Pci e i suoi derivati fino a Renzi, il partito era governato da
un’oligarchia che poteva dividersi anche con violenza, ma che tuttavia
si ritrovava sempre unita nella scelta del leader, ogni volta cooptato
dal sinedrio che ne guidava poi l’azione. Di questa oligarchia – ma
forse sarebbe meglio parlare di aristocrazia – D’Alema ha sempre fatto
parte, giocando in prima persona almeno due partite cruciali: nella
primavera del 2006, quando sfiorò il Quirinale, e nell’autunno di tre
anni dopo, quando si candidò senza successo alla carica di Mr. Pesc.
Se quest’anno ha riprovato a conquistarsi un posto in Europa – non
sappiamo se con l’intenzione di coronare così la sua carriera, o di
usare Bruxelles come un trampolino per il Quirinale – è perché D’Alema
non si considera affatto un pensionato. Lo ha detto con l’abituale
schiettezza in più occasioni, e non basta a smentirlo un banchetto alla
sagra di Otricoli. Diversamente da Veltroni, che coltiva altre passioni
oltre alla politica (usandole peraltro più o meno come D’Alema usa la
politica estera: e vedremo se gli andrà meglio), il presidente di
ItalianiEuropei è, per educazione, per formazione e per indole, totus politicus: in altri tempi avremmo detto che è un rivoluzionario di professione.
Si potrà discutere – e non è escluso che l’interessato voglia dire la
sua – sulle modalità con cui la seconda candidatura europea di D’Alema è
stata presentata, discussa, approvata e poi accantonata: è però facile
immaginare che D’Alema si sia impegnato a fondo, e che oggi potrebbe
sentirsi non pienamente soddisfatto del rapporto costruito non senza
fatica, anche psicologica, con Matteo Renzi.
Dal punto di vista del renzismo, era evidente fin dal primo momento
che D’Alema non sarebbe mai diventato il ministro degli esteri della Ue:
alfiere del rinnovamento generazionale e della parità di genere, Renzi
semplicemente non poteva nominarlo. Ma dal punto di vista di D’Alema le
cose stanno in un altro modo: chi siede in quella che un tempo si
chiamava “riserva della repubblica” e ha titoli e meriti per una carica
di prestigio, di norma la ottiene. Così almeno accadeva nella Prima
repubblica – e così, naturalmente, non è stato oggi.
L’ultimo stop a D’Alema, e l’indifferenza con cui è stato accolto,
sono il simbolo di una stagione che si chiude. Altri pensionamenti
seguiranno e, d’altro canto, avremo ancora molte occasioni per sentire
la voce dell’unico comunista italiano divenuto presidente del consiglio:
e tuttavia la partita è definitivamente chiusa, e il ciclo cominciato
con la caduta del Muro e la “svolta” di Occhetto ha infine concluso il
suo corso. Il Pci non c’è più.
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