L'Espresso 12 settembre 2014
Marco Damilano
L’ultima puntata, quella di questi giorni, è anche la più deprimente,
due candidati alle primarie su tre indagati per peculato, Matteo
Richetti e Stefano Bonaccini, entrambi giovani e renziani, sia pure
della prima ora (quella della rottamazione) e della seconda (quella del
trasformismo), uno si ritira, l’altro no ma si rimette al partito. Il
terzo candidato, l’unico non indagato, è lo storico Roberto Balzani, già
sindaco di Forlì (sconfisse nel 2008 alle primarie la candidata
dell’apparato e sindaco uscente Nadia Masini, ha sfidato con coraggio un
sistema di potere, non campa di politica) e di cultura laica,
repubblicana. Lui sì che avrebbe storia e titoli per aspirare al ruolo
di candidato renziano, se il renzismo esistesse.
Ma lo psicodramma di queste giornate è l’ultimo capitolo del Romanzo
Emiliano, un incrocio di “Buio a mezzogiorno”, l’atto di accusa di
Arthur Koestler contro lo stalinismo (il Partito che sostituisce i
concetti morali di buono e cattivo con quelli razionali di utile e
dannoso) e “House of Cards”: giochi sporchi. Il primo capitolo risale ad
almeno quindici anni fa, il 1999. C’era una volta il modello emiliano,
fondato da Palmiro Togliatti in persona, il 23 settembre 1946, nel
teatro municipale di Reggio Emilia, nel discorso dei «ceti medi e Emilia
rossa», in cui il Migliore teorizzò che lì, in quella regione, «le
ragioni del lavoro e quelle del capitale» potevano collaborare «per far
vedere al blocco reazionario che i comunisti sono capaci di far stare
bene il popolo».
Modello emiliano, di quel gran pezzo dell’Emilia, godiamoci insieme
l’elenco degli ingredienti by Edmondo Berselli: «Dentro c’erano il
culatello di Zibello, il salame di Felino e il prosciutto di Langhirano,
la Salvarani e la Barilla, gli egiziani che lavorano alle fonderie di
Reggio, i magliai di Carpi, il gusto della meccanica arretrata e
avanzata, il parmigiano reggiano, l’Idrolitina e Zangheri a Bologna, le
cooperative che diventavano sempre più colossali, le banche laocali
dappertutto, le sterminate balere in ogni dove, le notti caldi di
Rimini, tutti i birri della Riviera, Amarcord di Fellini, la pace
sociale perché il sindacato non tirava troppo la corda, l’ordine
generale perché nulla sfuggiva al partito… il più grande zampone
economico del mondo» o almeno d’Occidente. Il socialismo più la
ricchezza, altro che i soviet e l’elettrificazione. La Cina in Italia,
con decenni di anticipo sul miracolo orientale dell’ultimo decennio.
Il miracolo emiliano, l’isola felice, il comunismo reale si è
infranto negli anni Novanta su un doppio evento di portata storica. La
caduta del muro, ovvio, che in Italia fu annunciata da Occchetto da
quelle parti, alla Bolognina. E la nascita dell’Ulivo, l’avvento dei
post-comunisti al governo trascinati dall’emiliano (ma cattolico, non
comunista) Romano Prodi. In Emilia poteva funzionare come presa d’atto,
la certificazione che da quelle parti la rivoluzione era stata
dimenticata da un pezzo, il riformismo che presupponeva un modello di
partito davvero nuovo. E invece quando il modello emiliano è stato
esportato sul piano nazionale e la sinistra degli ex Pci ha conquistato
il governo del Paese, in Emilia sono cominciati i casini. Grossi.
Nel 1999 il primo crollo storico, a Bologna il partitone si dilania,
non riesce a designare un candidato alla successione di Walter Vitali,
si fanno per la prima volta simil-primarie, passa la rossa Silvia
Bartolini ma nel voto vince a sorpresa il civico Giorgio Guazzaloca, il
macellaio capo dei commercianti, anima della vecchia città che un tempo
rientrava nello zampone emiliano. Presidente del Consiglio è Massimo
D’Alema, il primo (e ultimo) ex Pci a Palazzo Chigi. Arrivano i giornali
di tutto il mondo a raccontare Bologna la rossa che volta le spalle al
Partito.
Seguono anni shakespeariani, di tradimenti, abbandoni, inchieste,
tragedie. Nel 2004 si candida il papa straniero, l’ex leader della Cgil
Sergio Cofferati che doveva diventare il capo della sinistra italiana e
che invece senza mai spiegare il vero motivo misteriosamente si candida a
Bologna, una città non sua, mai amato, mai accettato, un corpo
estraneo. Altrettanto misteriosamente Cofferati lascia quattro anni
dopo, senza correre per il secondo mandato, ufficialmente perché nel
frattempo ha incontrato una nuova compagna, è diventato papà e vuole
trasferirsi a Genova. Nuovo psicodramma, altre primarie, diventa sindaco
il numero due della regione Flavio Delbono, area prodiana, professore
universitario, il primo non comunista a guidare il centrosinistra a
Palazzo D’Accursio. Sembra il ritratto dell’affidabilità, timido e
noioso, e invece dopo sei mesi si scopre che Flavio dagli occhi blu (nei
manifesti elettorali ha fatto ritoccare il ceruleo delle pupille) ha
usato la carta di credito della regione per i viaggi all’estero della
sua amante. Si dimette e patteggerà la condanna.
Finito? No, non c’è pace, il Romanzo Emiliano copre tutti i generi,
dal feuilleton al dramma. Alle primarie per sostituire Delbono si
candida ancora una volta il supervotato consigliere regionale Maurizio
Cevenini, popolarissimo in città. Sembra destinato a una facile
vittoria, invece un malore improvviso lo costringe al ritiro. Si dice
che oltre all’ischemia siano state decisive le pressioni del partito che
lo vede come un cane sciolto incontrollabile. Il Cev non sopravvive
alla fine del sogno. Entra in depressione e una notte si getta dal
settimo piano. Una questione privata? No, un’orribile fine pubblica, un
atto politico, di denuncia e di protesta. Conta lo scenario scelto per
il suicidio: il palazzo della regione. Quasi una profezia: la
maledizione del Romanzo Emiliano sta per spostarsi dalla città alla
regione.
È il 2012, Vasco Errani regna per la terza volta, inamovibile, il suo
amico Bersani punta a Palazzo Chigi, la Ditta emiliana sembra
egemonizzare il Pd in Italia. Culatello, tortello magico, le metafore
emiliane arrivano nella Capitale. E invece è il simbolo di un’epoca
finita anche in Emilia. A Parma vincono i grillini di Pizzarotti contro
l’usato sicuro del vecchio partito. E cominciano le inchieste sulla
regione, quella che porta alla fine della lunga stagione di Errani,
quelle sulle spese dei consiglieri regionali che fanno sbandare le
primarie di questi giorni.
Ora appare chiaro che la Ditta si è dissolta. Ha perso la fede,
l’anima, resiste come gruppo di potere incarnato nella rete di
cooperative, aziende municipalizzate, amministratori, in un groviglio di
conflitti di interessi. Il partito-Ditta non è solo una metafora
bersaniana. Il designato iniziale alla successione di Errani, il sindaco
di Imola Daniele Manca, è uno stimato amministratore ma è anche il capo
del patto di sindacato che controlla la multiutility Hera e nomina il
Cda. Un modello stanco, estenuato, senza più alcuno slancio produttivo,
dedito all’unica occupazione di un potere in crisi: l’autoriproduzione.
Con metodi che fanno assomigliare l’Emilia a regioni più a meridione.
Cordate, minacce, intimidazioni (come quelle subite da Richetti,
trattato in questi giorni dai suoi compagni di partito, anche renziani,
come un caso clinico), mosse ambigue mai spiegate a un popolo di
militanti sempre più disilluso. Dell’antico modello resta il rituale
appello all’unità che nasconde feroci lotte di potere. E invece questo è
il momento della rottura. Spezzare la continuità del vecchio gruppo di
potere che si mantiene inalterato nei decenni. Rompere la catena di
sconfitte, inchieste giudiziarie, amori e suicidi che ha fatto calare
sull’Emilia una mini-cortina di ferro.
Come ha detto Balzani, all’Emilia serve una stagione di perestrojka, e
di glasnost (trasparenza), dopo anni di stagnazione brezneviana. Il
segretario del Pd afferma di non volersene occupare. Invece è materia
sua. Tocca a Matteo Renzi scrivere la parola fine sul Romanzo Emiliano.
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