Non ha alcun bisogno di elezioni anticipate. E su giustizia e
lavoro è semplicemente tornato alla radicalità delle origini, combinata
con l'urgenza di chiudere su qualche riforma
Ricavare dal discorso di Renzi ieri alla camera che il
premier voglia andare a elezioni anticipate e che stia facendo aperture a
Forza Italia, oltre a essere chiaramente contradditorio denuncia scarsa
conoscenza di Renzi e incomprensione dei suoi reali obiettivi.
Nei tradizionali tic della politica italiana si immagina che un
leader politico, appena conquistata una posizione di potere, lavori
soprattutto per rafforzarla. Ed è quello che Renzi, in effetti, ha
fatto: i primi tre mesi a palazzo Chigi, dove era arrivato con una
manovra di palazzo, il suo obiettivo è stato quello di sanare questo vulnus. Di qui l’agenda sincopata e il cronoprogramma ossessivo.
Il famoso 40,8 per cento ha risolto ad abundantiam il
problema, né sarà comunque facile replicare il risultato. I numeri di
maggioranza (delle due maggioranze) sono in parlamento già sufficienti,
una volta che (come sul bicameralismo) Renzi riesca a far pesare tutta
la forza politica, ben oltre quella numerica, e l’assenza di
alternative.
Il premier può ragionevolmente pensare che, come è adesso, nei
prossimi tre anni non appaia all’orizzonte alcun serio concorrente.
Perché allora la fretta sulla riforma elettorale? Solo in piccola parte
per avere a disposizione la famosa pistola carica. Soprattutto per altri
due motivi: l’impegno preso col capo dello stato (e una certa urgenza
di “liberarlo”, come Napolitano desidera); e il precedente Letta: il
quale pensava che l’impossibilità materiale di andare a elezioni lo
proteggesse, quando invece è accaduto l’esatto contrario.
Quanto alle svolte, o presunte tali, su lavoro e giustizia. «Di destra». «Berlusconiane». Funzionali all’asse con Forza Italia.
Eppure la letteratura su Renzi è ormai abbastanza vasta, dovrebbe
essere immediato trovare su questi punti nel discorso di Montecitorio
casomai il Renzi originario, quello più genuino: contro la chiusura
dell’attuale mercato del lavoro a gigantesche aree di esclusi, e per la
doppia riconquista dell’autonomia della politica rispetto alle pressioni
dei poteri e del garantismo come concetto profondamente progressista,
della sinistra quando non era ancora intossicata dal furore giacobino.
Tratti di identità dunque, non di opportunità. Che comunque non manca
e non guasta, vista l’urgenza di dare risposte forti non ai falchi del
Nordeuropa, ma a Mario Draghi e alla sua lucida analisi del deficit di
competitività che continua a frenare l’Italia.
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