Corriere della Sera 04/05/14
Francesco Alberti
«Dicono
che c’è troppa Europa… Per carità, casomai il contrario: ce n’è
troppa poca, anzi, in questi ultimi anni è praticamente
inesistente». Parola di Romano Prodi, 75 anni, uno che i corridoi di
Bruxelles li ha frequentati e che ha vissuto in diretta, quando era
alla guida della Commissione europea (1999-2004), il rinascere delle
velleità nazionali: «La battaglia con i vari Stati è iniziata nel
2003: i primi a venir meno alle regole furono la Germania e la
Francia, io tentai di farlo presente, ma mi fecero garbatamente
capire di lasciare perdere, la realtà è che il vento stava
cambiando, l’Italia di Berlusconi era politicamente isolata e
l’unico che avrebbe dovuto difendermi, Tony Blair, era più a
destra del centrodestra». Era l’inizio di una malattia che si
sarebbe trasformata, complice la globalizzazione e una crisi
economica affrontata «in modo sbagliato», in «un blocco
decisionale provocato dal fatto che oggi comandano unicamente gli
Stati». Era l’inizio di quelli che Prodi ha definito «gli anni
della paura». Nascono da qui i tanti Grillo (per la verità molto
diversi tra loro) che, sotto le bandiere di quella «variegata
famiglia» che risponde al nome di populismo, picchia oggi ai fianchi
il Vecchio Continente.
È un Prodi in versione totalmente
europea (abile quanto Messi nel dribblare qualsiasi domanda che anche
solo vagamente sfiori l’Italia renziana) quello che ha tenuto ieri,
al Teatro degli Atti a Rimini, una lectio magistralis alle «Giornate
del lavoro» della Cgil, ultimo appuntamento prima del congresso
nazionale che si aprirà martedì. A suo agio, spesso applaudito dal
pubblico (in prima fila anche Susanna Camusso), il due volte ex
premier non ha nascosto di «essere angosciato» dalla deriva presa
dalla politica europea, la cui «caduta d’immagine è
impressionante». Tuttavia, a dispetto di un vento antieuropeo che
sicuramente si farà sentire alle prossime elezioni per Strasburgo,
Prodi prova a guardare il bicchiere mezzo pieno: «Credo che il dopo
elezioni vedrà la nascita di una grande coalizione con una
sufficiente maggioranza che prenda lezione da questi allarmi e inizi
veramente la politica che bisogna fare in Europa». Comunque vada, è
la convinzione di Prodi, sarà «un’Europa diversa, dove il ruolo
della Commissione non potrà che essere più forte, si andrà verso
un rafforzamento delle istituzioni e, forse, anche verso una Ue a due
velocità».
Figli di un’Europa che ha tirato bruscamente il
freno a mano dopo lo slancio degli anni iniziali, culminati
nell’allargamento ai Paesi dell’Est («Quella, sì, che è stata
una vera esportazione di democrazia, altro che le panzane sull’Iraq…»
si è tolto un sassolino Prodi), i vari populismi di oggi «sono
l’inevitabile reazione alle mancate risposte della Ue». È mancata
in particolare la capacità di affrontare l’enorme problema della
crescente diseguaglianza iniziata negli anni 80 sulla scia delle
dottrine della Thatcher e Reagan e poi amplificata da vari fattori
tra i quali, a detta di Prodi, «anche una rivoluzione tecnologica
che divide e annulla il ceto medio». Oltre a un problema di risorse
(«Il mio ultimo bilancio a Bruxelles non arrivava all’1% rispetto
al Pil europeo»), la grande falla è stata «l’arretramento delle
istituzioni, il ruolo della Germania (Kohl e Merkel, pur provenendo
dalla stessa famiglia politica, hanno linee diverse), con il
paradosso che le uniche strategie di rafforzamento sono arrivate
dalla Bce». Errori pesanti, uno su tutti: «La crisi economica non è
stata affrontata dall’Europa. Gli Stati Uniti hanno riversato 800
miliardi nel loro sistema. La Cina ne ha investiti 585 nelle
infrastrutture. Noi siamo riusciti a far diventare un’emergenza
continentale un caso, come quello della Grecia, che inizialmente era
poco più che periferico». E in Ucraina, ora, di fatto facciamo
tappezzeria: «Al tavolo con la Russia c’è Obama. Perché?
Dovremmo esserci noi…».
Nessun commento:
Posta un commento