BERNARDO VALLI
La Repubblica - 3/5/2014
I trentotto morti di Odessa, in un
incendio criminale appiccato durante uno scontro tra manifestanti pro
Mosca e pro Kiev, annunciano una svolta nella crisi ucraina.
IL numero delle vittime si avvicina a
quello di una guerra civile che sta per esplodere. Due consultazioni
elettorali stringono i tempi e inaspriscono il confronto. Mi
riferisco alle presidenziali del 25 maggio, indette dal governo
provvisorio, e all’ancor più imminente referendum locale dell’11
maggio, annunciato dai separatisti della «repubblica popolare di
Donetsk». Una ripetizione, piuttosto improbabile, dello scenario che
ha condotto alla secessione della Crimea. Questi due appuntamenti,
uno nazionale l’altro locale, spingono Kiev a tentare di riprendere
al più presto il controllo delle regioni sud orientali. Al tempo
stesso stimolano Mosca a incoraggiare i separatisti ad occupare o
conservare con la forza il potere in quella parte del Paese
confinante con la Russia. I morti di Odessa sono vittime della
tensione sempre più forte.
La giornata, conclusasi con le fiamme
nel porto dell’Ucraina meridionale, è cominciata all’alba con
l’intervento dell’esercito a Slovyansk. Un’operazione militare
che ha rivelato la natura dello scontro fino a quel momento. Il
governo provvisorio di Kiev ha parlato di «fase attiva», come se
fosse finito il tempo delle esitazioni, e si fosse passati a
un’azione armata non più condizionata dal timore di provocare un
intervento delle truppe russe (valutate a quarantamila uomini)
presenti lungo la frontiera. In realtà l’esercito ha circondato in
parte la città, ma non ha osato sfondare le barricate dei
separatisti che la controllano. La prudenza dei governativi non ha
impedito a Mosca di denunciare subito la violazione degli accordi di
Ginevra. Accordi che Vladimir Putin si è ben guardato dal rispettare
poiché non ha mai invitato i filo russi a ritirarsi dalle località
e dagli uffici pubblici occupati, come previsto dall’impegno
sottoscritto dal suo ministro degli Esteri. Le fiamme di Odessa hanno
incendiato anche le parole, poiché la polemica si è poi arroventata
con le reciproche accuse.
L’operazione militare a Slovyansk
(durante la quale, nonostante la cautela, ci sono stati alcuni morti
ed elicotteri abbattuti) è stata dettata dall’ansia del governo di
Kiev che teme di non avere il controllo del Paese prima delle
elezioni presidenziali, quindi di non poterle tenere. I separatisti
vogliono invece impedire un voto che conferirebbe un’indubbia
legittimità al potere centrale filo europeo. Al quale sembra
garantito un risultato favorevole nel caso di una normale
consultazione nazionale. Una legittimità scomoda anche per Vladimir
Putin, la cui non nascosta aspirazione è di avere un’Ucraina
docile se non proprio sottomessa. Perché sia tale il Cremlino
alimenta, finanza e guida le rivolte dei filo russi che creano caos e
divisioni. E lascia aperta la minaccia (nonostante le smentite) delle
truppe schierate al confine, il cui intervento favorirebbe la
secessione o una forte autonomia delle regioni sudorientali, con
venti milioni di abitanti e importanti industrie e ricchezze
minerarie.
Il credito di 17 miliardi di dollari,
appena accordato dal Fondo monetario internazionale, può consentire
al governo provvisorio di Kiev di avviare riforme e di affrontare le
presidenziali del 25 maggio in un clima meno angosciante di quello
fallimentare che si annunciava sul piano finanziario. Ma l’aiuto
dell’FMI e la decisione di ripristinare il servizio militare
obbligatorio hanno appesantito la reazione di Mosca e dei suoi
sostenitori in Ucraina. Sul terreno la tensione è diventata sempre
più forte, con l’aiuto di una propaganda che non risparmia i
colpi.
Le accuse di fascismo, vedi di nazismo,
si sono intensificate. Al punto da denunciare i piccoli gruppi o i
partiti estremisti di destra della Majdan (ad esempio il Settore
destra o Svoboda, ai quali i sondaggi concedono a ciascuno non più
del 2- 3 per cento dei consensi) come discendenti degli sconfitti
della Grande guerra patriottica vinta dalla Russia sovietica nel ’45.
Quegli estremisti, stando sempre alla propaganda russa ma anche
all’opinione radicata tra i separatisti, tenterebbero adesso di
avere una rivincita, nel ricordo di padri e nonni, e sarebbero i veri
istigatori della politica di Kiev.
Durante una lunga conversazione nel suo
ufficio a Kiev, Arsen Avakov, il ministro degli Interni, mi
assicurava un mese fa che soltanto seicento militanti di gruppi
armati della Majdan non erano ancora stati incorporati nelle forze
dell’ordine. Gli altri avevano accettato di servire lo Stato demo-
cratico. Se il ministro era allora sincero, nel frattempo il numero
degli irregolari si dovrebbe essere assottigliato. I mezzi di
informazione russi sostengono al contrario che gli estremisti
governano a Kiev. In queste ore radio e televisione ascoltate nelle
regioni sudorientali non perdono occasione anche per sottolineare la
presenza di militari «che parlano in inglese », cioè di americani,
nell’esercito ucraino impegnato attorno a Slovyansk.
A differenza di quel che è accaduto in
Crimea, i promotori della “repubblica popolare di Donetsk”, non
dispongono di seggi elettorali e non hanno i registri degli aventi
diritto per organizzare l’annunciato referendum locale dell’11
maggio sull’autonomia o la secessione. Ma nel frattempo potrebbero
creare i seggi e procurarsi i registri per dare alla consultazione
una parvenza di legalità. L’idea di referendum potrebbe contagiare
altri gruppi separatisti del Donbas, regione in cui si trova Donetsk.
Il governo centrale non ha sempre la forza per evitarlo, poiché non
ha il completo controllo della polizia nelle zone confinanti con la
Russia. Può contare su poco più di un terzo degli effettivi. Il
resto è sotto l’influenza dei separatisti o è sensibile agli
umori del momento. È opportunista.
Per ora Kiev non è stata capace di
mobilitare sul serio la popolazione favorevole all’unità
nazionale, intimorita dall’attivismo dei filo russi e dalla
presenza dell’esercito di Vladimir Putin al confine. Quella
popolazione di frontiera è per la verità una maggioranza non sempre
silenziosa. Ad esempio a Kharkiv si è fatta sentire e ha permesso
che la metropoli del Sud Est resti sotto il controllo del governo
centrale. Ma i morti di Odessa impongono un altro ritmo al confronto.
Disegnano un altro scenario.
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