domenica 4 maggio 2014

Kiev tenta di riprendersi l’Est del paese.


BERNARDO VALLI
La Repubblica - 3/5/2014

I trentotto morti di Odessa, in un incendio criminale appiccato durante uno scontro tra manifestanti pro Mosca e pro Kiev, annunciano una svolta nella crisi ucraina.
IL numero delle vittime si avvicina a quello di una guerra civile che sta per esplodere. Due consultazioni elettorali stringono i tempi e inaspriscono il confronto. Mi riferisco alle presidenziali del 25 maggio, indette dal governo provvisorio, e all’ancor più imminente referendum locale dell’11 maggio, annunciato dai separatisti della «repubblica popolare di Donetsk». Una ripetizione, piuttosto improbabile, dello scenario che ha condotto alla secessione della Crimea. Questi due appuntamenti, uno nazionale l’altro locale, spingono Kiev a tentare di riprendere al più presto il controllo delle regioni sud orientali. Al tempo stesso stimolano Mosca a incoraggiare i separatisti ad occupare o conservare con la forza il potere in quella parte del Paese confinante con la Russia. I morti di Odessa sono vittime della tensione sempre più forte.
La giornata, conclusasi con le fiamme nel porto dell’Ucraina meridionale, è cominciata all’alba con l’intervento dell’esercito a Slovyansk. Un’operazione militare che ha rivelato la natura dello scontro fino a quel momento. Il governo provvisorio di Kiev ha parlato di «fase attiva», come se fosse finito il tempo delle esitazioni, e si fosse passati a un’azione armata non più condizionata dal timore di provocare un intervento delle truppe russe (valutate a quarantamila uomini) presenti lungo la frontiera. In realtà l’esercito ha circondato in parte la città, ma non ha osato sfondare le barricate dei separatisti che la controllano. La prudenza dei governativi non ha impedito a Mosca di denunciare subito la violazione degli accordi di Ginevra. Accordi che Vladimir Putin si è ben guardato dal rispettare poiché non ha mai invitato i filo russi a ritirarsi dalle località e dagli uffici pubblici occupati, come previsto dall’impegno sottoscritto dal suo ministro degli Esteri. Le fiamme di Odessa hanno incendiato anche le parole, poiché la polemica si è poi arroventata con le reciproche accuse.
L’operazione militare a Slovyansk (durante la quale, nonostante la cautela, ci sono stati alcuni morti ed elicotteri abbattuti) è stata dettata dall’ansia del governo di Kiev che teme di non avere il controllo del Paese prima delle elezioni presidenziali, quindi di non poterle tenere. I separatisti vogliono invece impedire un voto che conferirebbe un’indubbia legittimità al potere centrale filo europeo. Al quale sembra garantito un risultato favorevole nel caso di una normale consultazione nazionale. Una legittimità scomoda anche per Vladimir Putin, la cui non nascosta aspirazione è di avere un’Ucraina docile se non proprio sottomessa. Perché sia tale il Cremlino alimenta, finanza e guida le rivolte dei filo russi che creano caos e divisioni. E lascia aperta la minaccia (nonostante le smentite) delle truppe schierate al confine, il cui intervento favorirebbe la secessione o una forte autonomia delle regioni sudorientali, con venti milioni di abitanti e importanti industrie e ricchezze minerarie.
Il credito di 17 miliardi di dollari, appena accordato dal Fondo monetario internazionale, può consentire al governo provvisorio di Kiev di avviare riforme e di affrontare le presidenziali del 25 maggio in un clima meno angosciante di quello fallimentare che si annunciava sul piano finanziario. Ma l’aiuto dell’FMI e la decisione di ripristinare il servizio militare obbligatorio hanno appesantito la reazione di Mosca e dei suoi sostenitori in Ucraina. Sul terreno la tensione è diventata sempre più forte, con l’aiuto di una propaganda che non risparmia i colpi.
Le accuse di fascismo, vedi di nazismo, si sono intensificate. Al punto da denunciare i piccoli gruppi o i partiti estremisti di destra della Majdan (ad esempio il Settore destra o Svoboda, ai quali i sondaggi concedono a ciascuno non più del 2- 3 per cento dei consensi) come discendenti degli sconfitti della Grande guerra patriottica vinta dalla Russia sovietica nel ’45. Quegli estremisti, stando sempre alla propaganda russa ma anche all’opinione radicata tra i separatisti, tenterebbero adesso di avere una rivincita, nel ricordo di padri e nonni, e sarebbero i veri istigatori della politica di Kiev.
Durante una lunga conversazione nel suo ufficio a Kiev, Arsen Avakov, il ministro degli Interni, mi assicurava un mese fa che soltanto seicento militanti di gruppi armati della Majdan non erano ancora stati incorporati nelle forze dell’ordine. Gli altri avevano accettato di servire lo Stato demo- cratico. Se il ministro era allora sincero, nel frattempo il numero degli irregolari si dovrebbe essere assottigliato. I mezzi di informazione russi sostengono al contrario che gli estremisti governano a Kiev. In queste ore radio e televisione ascoltate nelle regioni sudorientali non perdono occasione anche per sottolineare la presenza di militari «che parlano in inglese », cioè di americani, nell’esercito ucraino impegnato attorno a Slovyansk.
A differenza di quel che è accaduto in Crimea, i promotori della “repubblica popolare di Donetsk”, non dispongono di seggi elettorali e non hanno i registri degli aventi diritto per organizzare l’annunciato referendum locale dell’11 maggio sull’autonomia o la secessione. Ma nel frattempo potrebbero creare i seggi e procurarsi i registri per dare alla consultazione una parvenza di legalità. L’idea di referendum potrebbe contagiare altri gruppi separatisti del Donbas, regione in cui si trova Donetsk. Il governo centrale non ha sempre la forza per evitarlo, poiché non ha il completo controllo della polizia nelle zone confinanti con la Russia. Può contare su poco più di un terzo degli effettivi. Il resto è sotto l’influenza dei separatisti o è sensibile agli umori del momento. È opportunista.
Per ora Kiev non è stata capace di mobilitare sul serio la popolazione favorevole all’unità nazionale, intimorita dall’attivismo dei filo russi e dalla presenza dell’esercito di Vladimir Putin al confine. Quella popolazione di frontiera è per la verità una maggioranza non sempre silenziosa. Ad esempio a Kharkiv si è fatta sentire e ha permesso che la metropoli del Sud Est resti sotto il controllo del governo centrale. Ma i morti di Odessa impongono un altro ritmo al confronto. Disegnano un altro scenario.



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