lunedì 12 gennaio 2015

La tv: niente spot per «Charlie» 
Lite per email ad Al Jazeera 
fra cronisti arabi e americani.


Corriere della Sera 11/01/15
corriere.it
DAL NOSTRO INVIATO
 NEW YORK
Al di la della condanna per la strage di Parigi e la solidarietà ai disegnatori di Charlie Hebdo , la discussione sull’opportunità di pubblicare le vignette satiriche blasfeme che hanno offeso i musulmani ha diviso molti giornali. Anche alcune delle più prestigiose testate internazionali, dal Financial Times al New York Times . Confronti anche aspri, a volte con sfumature colorite come è avvenuto a New York dove il direttore del Times , Dean Baquet, ha risposto con insulti a un collaboratore che contestava con toni sgarbati la decisione di non pubblicare quei disegni.

Ma nulla eguaglia lo scambio di email infuocate che sta spaccando la redazione dell’edizione inglese di Al Jazeera , sollecitata a giudicare con severità il lavoro dei disegnatori assassinati e a criticare la campagna di solidarietà «Je suis Charlie»: dopo una serie di botta e risposta la discussione l’ha chiusa Omar Al Saleh, corrispondente dallo Yemen, che a Jackie Rowland, una giornalista di formazione Bbc che ora lavora per Al Jazeera da Parigi e ricordava ai suoi colleghi che il lavoro dei giornalisti (compresi quelli satirici) non può mai essere considerato un crimine, ha risposto seccamente: «Il giornalismo non è un crimine, ma l’insultismo non è giornalismo. E non fare giornalismo in modo corretto è un crimine».

Parole pesantissime destinate a rendere problematica la permanenza sotto lo stesso tetto di giornalisti con valori e retroterra culturali così diversi. Un esperimento avviato qualche anno fa quando la rete internazionale della tv del Qatar, accusata di diffondere sentimenti antioccidentali, cercò di cambiare rotta assumendo, per il canale in lingua inglese, giornalisti europei e americani.

Lo scontro in redazione è venuto alla luce quando la National Review Online , il sito della rivista conservatrice americana, ha pubblicato le email. Tutto è iniziato con una direttiva del produttore esecutivo Salah-Aldeen Khadr che invitava anchormen e corrispondenti, nei servizi sulla strage di Parigi, a mettere in dubbio che l’attentato, comunque da condannare, possa essere considerato un attacco alla libertà di opinione e a bollare «Je suis Charlie» come slogan alienante. Non una necessaria manifestazione di solidarietà ma l’espressione di un ragionamento sbagliato: o sei con me o contro di me.

Khadr presenta i suoi come suggerimenti, ma è perentorio e dettagliato: in primo luogo «bisogna chiedersi se c’è davvero un attacco al popolo e alla cultura francese o se è stato preso di mira un bersaglio limitato reo di aver offeso un miliardo e mezzo di persone». L’omicidio va sempre condannato, aggiunge il produttore di Al Jazeera , ma una cosa è «difendere la libertà d’espressione davanti a un regime, insistere sul diritto di offendere è infantile». E ancora: «I vignettisti sapevano che si esponevano a rischi per difendere principi che quasi nessuno contestava». Se non siamo al «se la sono cercata», poco ci manca. Gli ha risposto il corrispondente americano Tom Ackerman sostenendo la necessità di pubblicare le vignette per non dare ai killer l’idea di averla spuntata. Replica dei colleghi arabi: se insulti un miliardo e mezzo di persone in ciò che hanno di più sacro devi sapere che qualche pazzo ci può essere.

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