lunedì 12 gennaio 2015

Dal parco al patto in carcere 
La via verso la jihad di tre amici.


Corriere della Sera 11/01/15
corriere.it
«Eccolo. Ci divertiamo...». L’ultimo video che Amedy Coulibaly invia al suo confratello Chérif Kouachi mostra alcuni maschi che brutalizzano due giovani ragazze, all’inizio spaventate, poi soggiogate e infine complici, come prevede lo stereotipo machista della pornografia.

Il dettaglio è sgradevole, ma indicativo del ruolo che avevano le donne nell’amicizia e nel fanatismo di due uomini che poi diventeranno l’asse portante della strage di Parigi.

«Sono un ghetto-musulmano» dice Chérif al giudice che lo interroga nel luglio 2010. «Metà jihadista, metà piccolo delinquente». Il tono è di derisione, ma le parole contengono qualche verità, e con il sempre facile esercizio del senno di poi diventa invece difficile capire come sia stato possibile che la sorveglianza, fisica e telefonica, sui due fratelli Kouachi, autori del massacro a Charlie Hebdo , sia stata del tutto abbandonata a partire dal luglio 2013 per Chérif e dall’inverno seguente per Said, il maggiore. C’erano altre priorità, è la risposta data ieri dal ministero dell'Interno, che spiega come entrambi fossero ormai in apparenza rientrati nella piccola criminalità, dediti a piccoli traffici di droga e al contrabbando.

Da allora, solo un breve ritorno di attenzione nei confronti di Said, nell’estate del 2014, subito declassato a pratica da commissariato di quartiere.

Dopo, soltanto dopo che le cose sono accadute, tutto appare sempre chiaro. L’inchiesta sulla rete di reclutamento parigina per la Siria che nel maggio 2010 mette insieme per la prima volta i nomi di Coulibaly, detto Doly, a quello dei fratelli Kouachi, legandoli ai pionieri del jihadismo francese, apre anche una finestra su una mutazione in corso senza seguirla fino in fondo, con nomi e località che poi diventeranno ricorrenti in questi giorni drammatici.

Buttes Charmont è un parco pubblico del XIX arrondissement con vista sulla basilica di Montmartre, diventato sinonimo della banda che nel 2005 tentava di esportare aspiranti jihadisti in Iraq, faccenda che segnò il debutto al disonore delle cronache di Chérif, condannato a tre anni di detenzione. Nel 2010 diventa anche il ritrovo delle passeggiate serali del più piccolo dei fratelli Kouachi con la taciturna moglie al seguito, accompagnati dal suo nuovo amico, conosciuto in carcere, Amedy Coulibaly, e dalla sua compagna, Hayat Boumeddiene.

Gli investigatori li sorvegliano mentre passeggiano e scherzano, rilevano come i maschi non disdegnino qualche spinello, con le donne che camminano sempre due passi indietro agli uomini.

Quando il progetto siriano entra nella fase operativa, insieme al fantomatico progetto di liberazione di Alì Belkacem, l’autore degli attentati al metrò del 1995, i due «confrères» si preparano scegliendo questa collina verde alle porte della banlieue come palestra di ardimento, corsa di lunga durata ed esercizi fisici a corpo libero. L’abbandono delle Citroën nera usata per la strage al Charlie Hebdo davanti al parco chiude il cerchio su Buttes Charmont, come luogo simbolo di una jihad domestica prima sognata e in seguito, purtroppo, realizzata.

Gli arresti del maggio 2010 sembrano cogliere i due amici nel mezzo di una transizione non priva di contraddizioni. Chérif esce subito dall’inchiesta, per mancanza di prove. A casa di Doly vengono invece trovate una calibro 38 e 240 cartucce di kalashnikov nascoste in fondo a un armadio. Alle pareti, in bella evidenza, ci sono le bandiere nere dell’Islam radicale.

Ma quella è anche la primavera in cui i due amici e relative consorti trascorrono intere serate alla Foire du Trône, la festa di ispirazione cattolica con musica e concerti che ricorda la distribuzione del pan di spezie da parte dell’abbazia di Sant’Antonio durante la settimana santa del 957. Si svolge ogni anno da aprile a maggio. Nel parco di Vincennes, a pochi passi dalla drogheria kosher dove Coulibaly ucciderà quattro ostaggi. Le perquisizioni certificano anche il comune scambio di materiale pornografico tra i futuri terroristi, che commentano i filmati con espressioni volgari, come due bambinoni non cresciuti.

«Per me c’è solo la religione, della famiglia non me ne importa nulla». Coulibaly era un esperto di rapine a mano armata. Al contrario dell’amico Chérif, che appare come un predestinato della jihad domestica, all’eterna ricerca di qualche pessimo maestro dal quale dipendere, il terzo uomo del massacro di questi giorni era nato nella Grande Borne, uno dei più vasti esperimenti di edilizia popolare mai realizzati in Europa.

Era il settimo di dieci figli, piccolo e muscoloso, appassionato di body building, rinnegato dal padre dopo il primo arresto, avvenuto all’età di 15 anni. Nel carcere di Fleury-Mérogis avviene l’incontro che gli cambia la vita. La cella accanto alla sua è abitata da Djamel Beghal, teorico della jihad che intanto ha già convertito Chérif.

I due amici condivideranno solo sette mesi di pena, da settembre 2008 ad aprile 2009, ma il loro legame non si scioglierà mai. A tenerlo stretto ci sarà sempre Beghal, che una volta al confino nella campagna dello Chantal, sottopone gli adepti a prove teoriche e pratiche. È lui che ordina ai due amici di ripulirsi dalle scorie dell’odiato stile di vita occidentale e impone alle loro mogli il viaggio alla Mecca in solitaria e il passaggio al velo integrale.

Alla vigilia della strage al Charlie Hebdo sei membri del gruppo di Beghal erano in libertà. Nelle carte dell’inchiesta c’è una intercettazione del 12 marzo 2010 in cui il «maestro», oggi disperso in Siria, risponde con calma a domande che vertono sulla religione. «Per essere davvero religiosi, occorre odiare i miscredenti».

All’altro capo del telefono gli rendono gli omaggi tre uomini entusiasti e rispettosi del maestro. Sono Coulibaly, Chérif e Said Kouachi. «Se volete che vi elenco tutti i terroristi che conosco: quelli della filiera cecena, della filiera afgana. Ma questo non fa di me un terrorista. Sciiti e sunniti? Non perdo tempo con queste storie».

Con i magistrati Coulibaly faceva lo sbruffone. E nel suo esibizionismo infilava frasi che a rileggerle adesso assumono un significato amaro. «Gli attentati ai Paesi occidentali non servono a nulla. La terra è abbastanza grande per tutti, la possiamo dividere. Non sono d’accordo con le stragi, perché potrei essere anch’io tra le vittime».

Nel dicembre 2013 viene condannato a cinque anni di prigione, ma esce nel luglio del 2014. Chérif Kouachi assiste a ogni udienza del processo, sempre seduto in prima fila, davanti alla gabbia degli imputati.




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