lunedì 5 gennaio 2015

Addio a Mario Cuomo l’italiano che non volle diventare presidente


VITTORIO ZUCCONI
La Repubblica 3 gennaio 2015
Tre volte governatore dello stato di New York non ebbe il coraggio di accettare la candidatura 
Era troppo di sinistra, Mario, troppo eloquente, troppo italiano per diventare presidente degli Stati Uniti. Con quella maledetta vocale alla fine del cognome, segno inconfondibile della sua italianità pesante come una macina da mulino, Mario Cuomo fu il primo wop, il primo immigrato italiano a “vedere” la Casa Bianca, ma senza avere il coraggio di allungare la mano. Il suo partito Democratico e milioni di elettori lo aspettarono e lo invocarono per dieci anni, incantati da quella sua “silver tongue”, da quella lingua d’argento che aveva fatto tintinnare i cuori alla convention di San Francisco nel 1984, ma invano.
Lo avevano soprannominato “L’Amleto dell’Hudson”, per le sue esitazioni, ma meglio sarebbe stato chiamarlo il “Godot di Queens”, perennemente atteso e mai arrivato. Eppure la strada verso il sacro Gral della repubblica, la Presidenza, sembrava spalancata davanti ai piedi di Mario Matteo Cuomo, da quando il ragazzo che aveva tentato la carriera di giocatore professionista di baseball con un ingaggio da duemila dollari nel 1952 per i “Pirates” di Pittsbugh prese una pallinata nella nuca e lasciò gli stadi per la facoltà di legge dei gesuiti alla Fordham University.
Più di ogni altro italo americano sopravvissuto al razzismo dell’America anglo, il figlio di Andrea arrivato da Nocera Inferiore per aprire una “grosseria”, un negozio di generi alimentari a Queens e di Immacolata da Tramonti, sopra Salerno, portava le stigmate del messia politico. Sarebbe potuto essere il profeta, il Mosè di una comunità italo americana che mai aveva saputo crearsi una lobby buona, zavorrata dalla pessima lobby di Cosa Nostra. Ma gli mancava il “fuoco nella pancia” e gli pesò sempre l’ombra del nome, il timore che qualcuno, nel crogiolo della campagna, buttasse nel fuoco sospetti e voci di mafia su di lui o sulla famiglia della moglie, Raffaella, la donna che aveva sposato 60 anni or sono.
Eppure era il cavallo sicuro, il purosangue che avrebbe dovuto soltanto correre per vincere. Dopo avere spazzato via i repubblicani da Albany, la capitale dello Stato di New York, suonando Eye of The Tiger , l’inno di Rocky come colonna sonora della campagna, Cuomo sarebbe stato eletto, rieletto e trieletto al governatorato. E senza mai concedere nulla del proprio bagaglio ideale e dei propri valori. Era ferocemente liberal , progressista anti-reaganiano e in una delle sue frasi più sonore pronunciate al Congresso di San Francisco aveva chiesto di «sceavuto gliere la pace contro la guerra» perché «la guerra è morte, la pace è vita».
Da uomo cresciuto all’ombra di un padre che doveva misurare ogni fetta di capicollo e di caciocavallo per tenere a galla il negozietto, Mario era stato un amministratore ferreo della bancarottiera New York. Aveva ridotto le tasse eppure aumentato i servizi. Quadrato il bilancio e creato il primo servizio metropolitano per i figli della strada e per i senza tetto. Imposto le cinture di sicurezza per legge. Cattolico diligente e osservante, dunque inflessibilmente anti-aborto volontario, aveva il coraggio di indignare tutti, i pro e i contro. «Le convinzioni personali di un amministratore pubblico non devono diventare legge che valga anche per chi non le condivide» aveva detto, meritandosi la minaccia di scomunica dal cardinale di New York, O’Connor. E anche sulla pena di morte non mollò mai. Con lui, il boia non passò.
Il tabernacolo della Casa Bianca era aperto, il calice a portata di mano. “Run, Mario, Run”, corri, Mario, invocavano i democratici che volevano un rivale credibile nel 1988 contro l’inevitabile successione del vecchio Bush a Reagan. Cuomo parve il salvatore dopo il disastro del candidato di testa, Gary Hart, sorpreso con una stupenda ragazza sulle ginocchia su uno yacht in Florida mentre lui batteva il New Hampshire con l’umiliata consorte al fianco. Nelle nevi del febbraio nel Nord attendemmo di ora in ora l’arrivo di Cuomo sempre annunciato e mai avvenuto, come l’avremmo atteso quattro anni dopo, nel 1992, quando la candidatura di un certo Bill Clinton pareva agonizzare.
Arrivo, non arrivo, «non ho piani neppure per fare piani», diceva la voce non più argentea di Mario da New York dove un aereo con il piano di volo pronto e i serbatoi pieni era pronto per portarlo alle primarie del New Hampshire ‘92. Arrivò al confine dello Stato, fra Massachusetts e New Hampshire, ma non attraversò mai il Rubicone. Non si candidò. Lasciò gli elettori liberi di aggiungere il suo nome alla scheda, ma gli elettori, delusi e indispettiti dal Godot di Queens, gli concessero appena il 3% dei voti. Fu la fine dell’ Italian Dream .
Mario che non sapeva decidersi, Mario che respinse anche l’offerta fatta da Clinton di diventare giudice alla Corte Suprema (gli rispose di no con un fax, senza il coraggio di dirglielo di persona) si sarebbe portato via il segreto del gran rifiuto. Perché, Governor, non accettò di correre? Gli domandai una sera del 1992 salendo insieme le scale mobili del Madison Square Garden per la Convention democratica dove proprio lui avrebbe lanciato Clinton verso la Casa Bianca. Mi sorrise con quella sua faccia così carnosa, così italiana, piegando le pieghe forti del viso: «Perché avrei perso e i tempi non erano ancora maturi per un presidente con un nome italiano».
Mentre lui moriva, ieri l’altro, per un cuore al collasso, Andrew Cuomo, il figlio con il nome del nonno, pronunciava il discorso di insediamento sulla poltrona di governatore di New York.


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