martedì 17 dicembre 2013

Tre anni fa iniziava la rivolta in Tunisia Ecco cosa resta delle “Primavere arabe”

Il 17 dicembre 2011 Bouazizi si dà fuoco: inizia la rivoluzione che infiamma il Medio Oriente. Ma oggi la regione è ancora nel caos. Una veglia un anno dopo la morte del tunisino Bouazizi nel 2011


Il 17 dicembre 2011 il fruttivendolo tunisino Mohamed Bouazizi si dà fuoco davanti alle autorità di Sidi Bouzid per protestare contro le intimidazioni e la corruzione della polizia locale che poche ore prima gli aveva confiscato il carretto con la scusa di un’irregolarità nel permesso di vendita. Bouazizi non ha la consapevolezza di politica di Ian Palach ma il suo gesto è la goccia che fa traboccare il vaso stracolmo di ingiustizie del paese retto dispoticamente da quasi un trentennio dal presidente Ben Ali. E non solo. Bouazizi morirà il 4 gennaio 2011, ma a quel punto il meccanismo innescato dalla sua estemporanea protesta è irreversibile. La Tunisia esplode ed esplodono in successione l’Egitto, la Libia, lo Yemen, la Siria. Nordafrica e Medioriente conquistano la ribalta del mondo dicendo no all’immobilismo delle proprie dittature. Ben ALi, Mubarak, Gheddafi, Saleh, i tiranni, con l’eccezione di Assad, cadono uno dopo l’altro. E’ il momento della primavera araba e il fruttivendolo che ne rappresenta l’icona viene insignito del Premio Sakarov per la libertà di pensioro mentre The Times lo incorona personaggio dell’anno 2011. A che punto siamo oggi, tre anni dopo quella stagione di sogni, fughe in avanti, delusioni, rilanci?  

TUNISIA  
La prova del nove è la Costituzione. In un paese stanco della tormentata transizione alla democrazia al punto da aver rifiutato qualsiasi cerimonia ufiiciale per la ricorrenza della rivoluzione, il presidente Mohamed Moncef Marzouki chiede all’Assemblea nazionale costituente che acceleri la ratifica della nuova Costituzione. L’obiettivo è quello di debuttare come “stato democratico” il 14 gennaio 2014, anniversario della fuga di Ben Ali. Dopo la ratifica della costituzione il nuovo governo dovrà convocare le elezioni e mettere la parola fine ai complicati mesi della crisi politica esplosa un anno fa con gli omicidi di due oppositori e le proteste a catena contro il partito islamico Ennahda, alla guida del governo di coalizione sin dalle elezioni dell’ottobre 2011. Sabato scorso i leader politici rivali si sono accordati sulla scelta del ministro dell’Industria Mehdi Jomaa per la carica di premier a interim alla guida di governo di indipendenti per traghettare il paese al voto (anche perché Ennahda ha fatto più di un passo indietro temendo la sorte dei Fratelli Musulmani egiziani). L’Europa applaude all’accordo raggiunto e i tunisini tirano un sospiro di sollievo, se il paese non ripartirà rapidamente la crisi economica potrebbe portarlo a picco. Se nel 2010 la disoccupazione era al 13% oggi l’Istituto nazionale tunisino di statistica parla di 16% e la povertà è intorno al 25% (prova ne sia la quantità di giovani che scappa verso l’Europa a bordo dei barconi che fanno la spola e spesso naufragano nel Mediterraneo). Il Fondo Monetario Internazionale che a giugno ha concesso un prestito di 1,78 miliardi di dollari chiede riforme urgenti.  

EGITTO  
L’Egitto ha cominciato il conto alla rovescia in attesa del 14 gennaio 2014 quando, per due giorni, il paese voterà il referendum sulla Costituzione appena licenziata dal governo a interim guidato da Adly Mansour. A quel punto ci saranno tre e sei mesi di tempo per indire le elezioni parlamentari e presidenziali. La nuova Costituzione cancella quella a forte impronta islamista approvata un anno fa tra le proteste della piazza liberal dal governo controllato dai Fratelli Musulmani. In un anno le sorti si sono rovesciate: l’ex presidente Morsi è stato deposto e arrestato, i Fratelli Musulmani (stravincitori delle prime elezioni del post Mubarak) sono stati messi al bando e i loro fondi confiscati, l’esercito ha ripreso in mano la transizione ritagliandosi (nella Costituzione) uno spazio che allarma parecchio i liberal (felici invece di aver fatto fuori i Fratelli). SI parla sempre più spesso di una possibile presidenza el Sisi, il capo delle forze armate e anche l’architetto di quello che i Fratelli chiamano il golpe di luglio e i liberal “la seconda rivoluzione egiziana”. Di nuova l’ombra dei generali che si allunga sull’Egitto. Il paese si prepara a votare stanco dell’instabilità e della crisi economica (secondo Gallup il 94% sostiene l’esercito), i sostenitori dei Fratelli faranno campagna per boicottare il referendum insieme ai socialisti rivoluzionari e al movimento liberal 6 aprile ma è assai probabile che la Costituzione venga approvata.  

SIRIA  
La rivolta contro il dittatore Bashar Assad (appartenente alla minoranza religiosa alawita) iniziata nel marzo 2011 e rimasta pacifica fino all’inizio del 2012 si è trasformata gradualmente in una sanguinaria guerra civile in cui distinguere il bene e il male è ormai impossibile. I morti hanno superato quota 120 mila (in maggioranza civili) e i profughi sono in aumento, Secondo l’Onu i rifugiati nei paesi vicini (Libano, Giordania, Turchia) sono già 2 milioni e 900 mila, di cui oltre un milione bambini. Si stima che al ritmo di 5mila esuli al giorno si raggiungeranno i 5 milioni entro la fine del 2014. Le speranze, scarse, sono nella conferenza di pace Ginevra II, fissata a gennaio. La comunità internazionale ci conta dopo l’accordo raggiunto tra Usa e Russia per il disarmo chimico di Assad. In realtà la situazione sul terreno è difficilissima. L’opposizione ad Assad è frammentatissima e senza leader e rifiuta di partecipare a Ginevra II nel caso in cui Assad dovesse partecipare in qualche forma ai negoziati (lui vuole addirittura ricandidarsi alla presidenza). Il Libero Esercito Siriano, l’opposizione armata e moderata, è allo sbando perché messa in scacco dall’avanzata di al Qaeda e di gruppi di jiahdisti che combattono contro Damasco ma nella prospettiva di una pericolossisima guerra santa pro domo loro. Il Golfo (e parzialmente l’occidente) sostiene i ribelli quanto Iran e Russia sostengono Assad, ma lo scontro si è trasformato in un muro contro muro in cui Damasco si è eretto ormai a baluardo della stabilità contro l’avanziata dei fondamentalisti islamici. 


LIBIA  
Più che l’eredità di Gheddafi la Libia sembra dover fare i conti con la sua maledizione, ossia la frammentazione di un paese svuotato dal Colonnello da qualsiasi forma di istituzione, partito politico, organizzazione sociale. Dopo la caduta di Gheddafi (aiutata dall’intervento Nato mancato invece in Siria), la Libia è stata governata da un Consiglio di transizione nazionale che raggruppava le opposizioni libiche. Dopo le elezioni parlamentari del novembre di un anno fa il parlamento ha nominato premier Ali Zeidan, ma Zaidan e il suo governo si sono dimostrati da subito troppo deboli per controllare il paese diviso tra tribù (circa 140) e milizie rivali che, ad eccezione di pochi casi, non hanno riconsegnato le armi a rivoluzione finita ma sono rimaste a difendere il proprio territorio e le proprie richieste autonomistiche.I politici stessi sono tutto fuorché compatti: i liberal fanno capo al ministero della Difesa, mentre i gruppi islamisti (la Libia è l’unico paese della primavera araba in cui gli islamisti non hanno stravinto alle prime elezioni post dittatura) si riconoscono nel ministero dell’Interno (anche in parlamento ci sono i liberal dell’Alleanza delle Forze Nazionali e il braccio politico dei Fratelli Musulmani). Sebbene la Libia sia un paese ricchissimo e poco popolato, l’assenza di sicurezza ne sta minando la ripresa. Nel 2012 a Bengasi è stato ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens, poco dopo un gruppo armato comandato da un ex capo della sicurezza ha preso il controllo dei porti più importanti dell’est del paese dimezzando le esportazioni di petrolio, tra il 9 il 10 ottobre scorsi il primo ministro Ali Zeidan è stato rapito nel suo albergo a Tripoli da una milizia legata al ministero dell’Interno che voleva protestare contro la cattura del sospetto terrorista libico Abu Anas al-Libi da parte delle forze speciale statunitensi. Il sequestro lampo di Zeidan (subito rilasciato) getta una luce sinistra sul presente libico: durante la guerra contro Gheddafi (unico momento di unione delle varie componenti del paese) i ribelli misero mano sui numerosissimi depositi di armi sparsi nelle città e nel deserto che oggi sono stati distribuite tra le milizie locali e tra i gruppi estremisti sparsi in tutta l’Africa settentrionale. 

YEMEN  
Dalla cacciata del presidente-dittatore Saleh, nel 2011 a oggi, lo Yemen è rimasto in una cronica instabilità, stretto tra la fragilità politica, le spinte secessioniste del sud, la presenza di Al Qaeda nella Penisola Arabica e la povertà che lo classifica come il paese più povero di tutta l’area dopo l’Afghanistan (35% di disoccupazione, 13 milioni di persone senza accesso all’acqua potabile, due milioni di bambini affetti da ritardi nella crescita per mancanza di cibo, metà della popolazione costretta a vivere con meno di due dollari al giorno). Tra continui rinvii (l’ultimo a novembre) si attende il referendum costituzionale che potrebbe trasformare lo Yemen in uno stato federale e preparare le elezioni presidenziali. Il movimento separatista del sud, al Hiraak al-Janoubi, fa campagna contro la nuova Costituzione. Al momento il paese dipende dagli aiuti stranieri, a cominciare dagli Stati Uniti che dall’inizio della transizione hanno donato al governo un totale di 600 milioni di dollari.

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