sabato 7 dicembre 2013

Dalla sua cella il Mandela palestinese rende onore al suo “maestro”

Guido Moltedo 

Europa  

Marwan Barghouti è detenuto dal 2002 in un carcere israeliano. Un comitato internazionale ne chiede la liberazione. Raccoglie le simpatie dei palestinesi d'ogni tendenza e ha il carisma necessario per un vero negoziato di pace
Dalla sua cella il Mandela palestinese rende onore al suo "maestro"Le parole più belle in onore di Nelson Mandela, le più sentite, le più significative, sono state scritte da una cella di detenzione simile a quella dove per ventisette anni fu prigioniero Madiba. Sono di Marwan Barghouti, il “Mandela palestinese”, un appellativo che l’associa al leader appena scomparso, non solo per la lunga e dura detenzione “politica” ma anche per la comune e rara virtù di saper parlare alle diverse anime e tendenze che vivono nel proprio popolo e per la riconosciuta capacità di leadership, per la forza carismatica, per l’intelligenza nel sapere usare la leva della forza come quella del dialogo. Barghouti ha trascorso, complessivamente, più di diciotto anni nelle carceri israeliane, di cui oltre undici da quel 15 aprile 2002, quando fu catturato a Ramallah nel corso delle operazioni militari denominate Scudo difensivo. È accusato di cinque omicidi e sconta cinque ergastoli.
«Nel corso di tutti gli anni della mia lotta – scrive Barghouti dalla prigione di Hadarim – ho avuto l’occasione più volte di pensare a te, caro Nelson Mandela. E ancor di più dopo il mio arresto nel 2002. Penso a un uomo che ha trascorso ventisette anni in una cella, cercando di mostrare che la libertà è in lui prima che diventi una realtà che il suo popolo saprà cogliere. Penso alla sua capacità di sfidare l’oppressione e l’apartheid, ma anche di respingere l’odio e mettere la giustizia al di sopra della vendetta».
Quando Marwan Barghouti fu catturato dai militari israeliani, Yasser Arafat era ancora vivo, e al capo carismatico e alla leadership palestinese di allora il giovane dirigente di al Fatah non risparmiava critiche («Dovrebbero lasciare i loro posti avendo fallito nei loro ruoli e responsabilità»). Era lui, già allora, alla testa della seconda Intifada, il possibile ricambio al vertice palestinese, per sostituire una dirigenza invecchiata, logorata e ormai priva di credibilità agli occhi stessi della propria gente. In Barghouti gli israeliani avrebbero trovato un negoziatore duro ma aperto, intransigente ma non inflessibile. In un editoriale, l’anno scorso, il quotidiano Haaretz esortava la leadership israeliana ad ascoltare Barghouti, affermando che egli è il leader più autentico che Fatah abbia prodotto e può guidare il suo popolo verso un accordo».
La sua prigionia l’ha escluso dai giochi e in questi anni la situazione è notevolmente peggiorata, sia all’interno del mondo palestinese sia sul fronte palestino-israeliano (per non dire dell’involuzione della politica israeliana). Ma anche per questo, Barghouti non è uscito di scena, pur essendo recluso, ma è anzi diventato un’icona. E oggi potrebbe rientrare nei giochi, diventando l’artefice di un processo politico e diplomatico straordinario, come accadde con Mandela.
È rispettato e sostenuto non solo dentro al Fatah, di cui è membro, ma anche dentro Hamas e Jihad islamico. 53 anni, oratore di talento, fluente nella lingua ebraica, ha definito il processo di pace «una necessità», Barghouti è l’unico in grado di prendere in mano le redini del movimento palestinese succedendo a Abu Mazen, presidente dell’Anp, del quale potrebbe diventare vice.
«Sarebbe un’ottima soluzione, ridarebbe credibilità alla leadership dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e del movimento Fatah. Aprirebbe la strada a una possibile successione ai vertici dell’Anp e dell’Olp, a favore di un esponente palestinese popolare e molto stimato». Così ha risposto l’analista palestinese Ghassan Khatib a Michele Giorgio del manifesto a proposito delle voci – lo scorso ottobre – che vorrebbero diversi alti dirigenti di Fatah impegnati a esortare il presidente dell’Anp Abu Mazen a nominare suo vice Barghouti. «Una mossa – sostiene ancora Giorgio – che, crede qualcuno, potrebbe favorire la liberazione di Barghouti, ritenuto da molti in grado di rilanciare le quotazioni di Fatah fra i palestinesi».
Per la sua liberazione – e con lui dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane – è in corso una campagna internazionale. Iniziata simbolicamente il 27 ottobre scorso proprio nella cella di Robben Island, dove fu detenuto Mandela, si basa su una dichiarazione firmata (primi aderenti) dai premi Nobel, il vescovo Desmond Tutu, Jody Williams, Adolfo Perez Esquivel, Josè Ramos Horta, Maireread Maguire e poi Angela Davis, Joan Burton, Lena Hjelm Wallen, Christiane Hessel (a nome anche di Stephen Hessel (tra gli estensori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Alla presenza di Fadwa Barghouti, Ahmed Qatrhada, Majed Bamiah, Neesham Bolton, Qaddura Fares, Francis Sahar, Ahmed El Azzam, ex-prigionieri sudafricani, rappresentanti palestinesi ed attivisti sudafricani), Luisa Morgantini (che si adopera per la diffusione dell’appello in Italia).

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