mercoledì 11 dicembre 2013

Madiba e Obama uniti dal fascino dell’imperfezione

Guido Moltedo 

Europa  

Il presidente si sente in debito verso il leader scomparso per la sua lungimiranza, per il suo tenace impegno affinché l’uscita dall’apartheid non finisse in una brutale resa dei conti
Senza Mandela, forse non ci sarebbe mai stato un presidente Obama, scriveva il New York Times il giorno dopo la morte del leader sudafricano. Quanto forte e importante fosse quella connessione – e la gratitudine del primo presidente nero americano nei confronti del primo presidente nero sudafricano –, Obama più volte l’ha detto. Con orgoglio, e insieme con l’umiltà di chi accosta la propria figura a quella di un «gigante».
Ma ieri quel legame era evidente più che mai, e splendente, ed è il filo che collega il Sudafrica con l’America, quell’intreccio di solidarietà e fratellanza tra neri americani e neri sudafricani che ha reso le rispettive lotte di emancipazione razziale un movimento unico, per la civiltà e per i diritti, con conseguenze di portata mondiale. Per questo le esequie di ieri di Nelson Mandela sono state un evento storico, non solo per la grandezza del leader da onorare, per la presenza di capi di stato e di governo da ogni angolo del mondo, e per l’occasione unica, tipica di avvenimenti del genere, di incontri ravvicinati altrimenti impensabili, come la stretta di mano tra il presidente americano e il presidente cubano Castro
Sono state un evento storico anche, forse soprattutto, per la presenza di Obama, accolto e salutato con ovazioni dagli ottantamila presenti non semplicemente come il presidente degli Stati Uniti ma come un figlio dell’Africa, un rappresentante dei fratelli neri americani, come colui che ha raccolto il testimone lasciato da Madiba.
«Trent’anni fa, quando ero ancora uno studente – ha detto Obama – ho conosciuto Mandela e la sua lotta. Ha mosso qualcosa in me, ha risvegliato le mie responsabilità verso gli altri e verso me stesso. E mi ha condotto – ha continuato in un crescendo – verso un improbabile cammino che mi ha portato oggi qui».
«La sua lotta – s’accalora il presidente – è stata la nostra lotta. Il suo trionfo, il nostro trionfo. La vostra dignità, la vostra speranza, hanno trovato espressione nella sua vita, e la vostra libertà, la vostra democrazia sono il lascito di quest’uomo. Io e Michelle abbiamo beneficiato delle battaglie di Mandela per i diritti civili. Negli Stati Uniti e in Sudafrica c’è voluto il sacrificio di innumerevoli persone per risolvere la questione del razzismo. Mandela è l’ultimo grande liberatore del XX secolo. Mandela è unico e non vedremo mai più uno come lui».E dunque «grazie Sudafrica per aver condiviso con noi Mandela».
Quel che lega Obama con Mandela è certamente la lotta contro la discriminazione razziale, ma non solo. Il presidente si sente in debito verso il leader scomparso anche per la sua lungimiranza, per il suo tenace impegno affinché l’uscita dall’apartheid non finisse in una brutale resa dei conti ma perché aprisse la strada a un “nuovo” Sudafrica, di coesistenza e di collaborazione tra le sue componenti un tempo separate e una sottomessa all’altra; lo stesso assillo di Obama, nel contesto dell’attuale “guerra civile” che divide l’America.
Un atteggiamento che non è figlio di un’ideologia buonista, ma della consapevolezza del «potere dell’azione ma anche delle idee, dell’importanza della ragione e degli argomenti, dell’esigenza di studiare non solo quelli con cui sei d’accordo ma anche quelli con cui non lo sei». Un atteggiamento che deriva dal senso acuto dei propri limiti, dalla coscienza della propria imperfezione che rende grande un leader. Nelson Mandela «non era un’icona, era un uomo in carne ed ossa», che ammetteva le sue imperfezioni ed è per questo che «lo amavamo così tanto».

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