martedì 10 dicembre 2013

Delrio: «Io, Renzi e la mia Emilia rossa»

Intervista al ministro degli affari regionali, il consigliere più ascoltato del nuovo segretario del Pd: «Una svolta storica per la sinistra, una Bad Godesberg dal basso. Sulle Province il primo test del governo»

«Non fatevi illusioni: le cosiddette élite si organizzeranno per resistere al cambiamento incarnato da Matteo Renzi. Ma è davvero una svolta storica: una Bad Godesberg italiana, dal basso, guidata dagli elettori, non dai gruppi dirigenti».
Graziano Delrio non è solo il consigliere più ascoltato di Matteo Renzi. Ministro degli affari regionali, quindi sulla potenziale linea di tensione tra il nuovo segretario del Pd e il governo, è uno che ha vissuto sulla propria pelle l’egemonia del Pci-Pds-Ds nell’Emilia rossa. Di famiglia comunista, a vent’anni si convertì al cristianesimo. Da sindaco di Reggio Emilia si è dovuto scontrare con l’apparato dell’ex partitone rosso.
Renzi è andato meglio nelle regioni rosse che nelle altre. La sinistra ha cambiato pelle?
E’ la percezione di un’affidabiità sul tema del cambiamento alla quale hanno contribuito anche Civati e Cuperlo. Il Pd ha dato l’idea di un partito sul quale si può investire, una responsabilità in un paese in cui i cambiamenti si annunciano molto e si praticano poco.
La svolta rappresentata da Renzi incontrerà resistenze nella società italiana?
L’immobilismo è un male molto italiano. Lo sto sperimentando anch’io, nel mio piccolo, sull’abolizione dellePprovince. Credo che in nessun altro paese al mondo il dibattito sia così personalizzato e così incapace di concentrarsi sulle cose da fare. Il fatto che il nuovo segretario del Partito democratico sia un sindaco aiuterà molto a focalizzare l’attenzione sulla concretezza.
Domenica a Firenze Renzi ha insistito molto sulla sfida generazionale. Non teme contraccolpi elettorali in un paese molto vecchio, anche anagraficamente?
Che sia il tempo di una nuova generazione mi pare plasticamente visibile, già dai candidati. Dare un’opportunità a una nuova generazione non significa giudicare negativamente quella che l’ha preceduta  ma anche su questo l’Italia è un paese anomalo. Da ricercatore universitario viaggiavo molto all’estero: là è normale che il giovane chirurgo metta le mani sui malati, in Italia è l’eccezione perché il vecchio chirurgo, anche quando ha  l’Alzheimer, pensa di poter tenere in mano il bisturi. Nella  politica italiana tutti pensano di poter tenere in mano il bisturi anche se hanno ormai la mano tremante. Il problema è che nel frattempo i pazienti si sono rivolti altrove. Bisogna avere più fiducia nei giovani, vederli come una risorsa, non aspettare i loro errori per crocifiggerli.
Lei in Emilia ha dovuto vincere le resistenze dell’apparato ex Pci. Alle primarie sono andati a votare nuovi elettori o quelli che l’anno scorso avevano scelto Bersani ora sono stati attirati da Renzi?
C’è stato un bellissimo afflusso di nuovi elettori, ma i nostri militanti e simpatizzanti sono molto più avanti dei gruppi dirigenti. Lo dico anche per esperienza personale: io ho dovuto vincere molte resistenze,  ho sempre trovato molta solidarietà nei militanti e molti sospetti nei gruppi dirigenti. Se c’è l’idea di un partito chiuso in se stesso sarà difficile vincere la sfida. Il Pd va impostato  come una comunità di uomini e donne liberi, il contributo di tutti è importante non solo quando si va a votare: noi dobbiamo trasformare questo partito in una grande occasione di partecipazione democratica.
Matteo Orfini ha scritto sul suo blog che «Renzi non è un barbaro che saccheggia la nostra città». Nel Pd la sfida generazionale forse è più trasversale di quanto si pensi?
Sì, lo penso anch’io. Però l’errore di quella frase sta nell’espressione “nostra”, non la condivido, anzi credo sia proprio quello il problema. Il Pd non è di proprietà di qualcuno, non c’è una classe dirigente che guida e un popolo che segue. C’è un partito che deve stare, come direbbe Aldo Moro, «piegato sulla pancia di questo paese» e deve trovare insieme ai suoi militanti le soluzioni giuste. Il partito appartiene ai suoi simpatizzanti: se  daremo la sensazione che il partito è di proprietà di un gruppo dirigente quello che è successo domenica non succederà più.
A Firenze Renzi è sembrato molto duro nei confronti del governo: gli ha dato due mesi di tempo.
Non credo che dobbiamo esercitarci sul conto alla rovescia, abbiamo sempre detto che il governo dura se governa e prende decisioni per il bene del paese: oggi pomeriggio (ieri per chi legge, ndr) la riforma delle province è andata in aula alla camera.
E’ già un test per Renzi?
E’ uno dei test, il primo. Poi c’è il tema della riforma del senato, io sono per il modello del Bundesrat tedesco perché sono un federalista convinto. Dobbiamo dare l’idea di una road map seria, non c’è un esame al giorno.
Ma se il governo non dovesse mantenere gli impegni entro un paio di mesi Renzi avrebbe problemi a farlo cadere?
Dovete chiederlo a lui, non è nelle nostre competenza: io esercito un altro ruolo.
Romano Prodi è uno dei vincitori delle primarie di domenica?
Il suo è stato un segnale importante. In questi anni è stato uno dei pochi a vedere uno sviluppo del sistema politico e istituzionale nella direzione di una maggiore semplicità ed efficienza.
Secondo lei ha votato Renzi?
Non mi esercito mai nelle dietrologie.
Ma il Pd di Renzi per nascere davvero dev’essere in continuità con l’Ulivo oppure dovrebbe rompere con quell’esperienza?
Solo i fatti potranno dirlo definitivamente ma io spero sia davvero l’inizio della Terza via tra partito e società.
Nel senso di Tony Blair?
Sì, nel senso blairiano.

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