Corriere della Sera del 26/05/15
River Abravanel
Matteo Renzi ha riformato la scuola
secondo lo stesso principio applicato alle aziende per l’articolo
18. Ma la scuola non è un’azienda. E non perché la cultura non è
un business , ma perché la scuola italiana non si preoccupa dei suoi
clienti, gli studenti.
La logica di Matteo Renzi applicata alla
riforma della scuola è la stessa del Jobs act: eliminare (o almeno
ridurre) le ingiustizie a danno dei lavoratori precari, ma allo
stesso tempo dare più potere ai loro capi (imprenditori nelle
aziende, presidi nelle scuole) nella selezione della forza lavoro:
gli imprenditori possono licenziare chi lavora male e i presidi
assumere chi insegna bene.
È chiaro che i sindacati protestano,
come hanno protestato per l’articolo 18. Il preside-capo (lo hanno
chiamato in tutti i modi: preside-sindaco, preside-sceriffo, ma in
realtà il concetto è semplicemente quello del capo che si sceglie i
collaboratori) non piace. La riforma dell’articolo 18 minaccia
l’inamovibilità del lavoratore (almeno quello dipendente a tempo
indeterminato delle grandi aziende) e la buona scuola minaccia
l’insindacabilità dell’insegnante.
Ma la buona scuola, se
anche non piace ai sindacati, è almeno una buona riforma per i
«padroni» della scuola, che sono poi tutti gli italiani? Purtroppo
molto poco.
Perché un’impresa privata ha l’imperativo di
servire bene i suoi clienti, se no scompare, e per questo fine
l’imprenditore ne sceglie i capi. Se questi non sanno organizzare
l’azienda per fornire un prodotto valido, l’imprenditore li
cambia o l’azienda fallisce. Se la legge dà loro più potere, i
padroni delle aziende possono aspettarsi che lo sfruttino bene.
Altrimenti vale quanto detto prima, o li cambiano o l’azienda
salta.
Nella scuola il padrone, cioè lo Stato, si è sempre
interessato più dei dipendenti (gli insegnanti) che dei suoi clienti
(gli studenti). Anche perché i suoi clienti non si sono mai dati
molto da fare. Non protestano se il servizio è pessimo, cioè se gli
studenti dopo la scuola non sono preparati al lavoro, come è il caso
in Italia più che in tutti gli altri Paesi occidentali. Quando
devono scegliere si servono dalla scuola sotto casa, non della
migliore. E quindi, senza clienti che protestano, lo Stato-padrone ha
scelto i capi, cioè i presidi, per essere dei burocrati. Con
concorsi dove si valuta la conoscenza delle leggi e delle norme.
Non che i presidi italiani siano tutti, o in maggioranza, burocrati.
Ci sono tanti presidi che sono dei veri leader: ma questo perché la
scuola è ancora per tanti una missione, non certo perché lo Stato
li ha scelti così. Perché hanno la passione della scuola e la
vogliono guidare, e siccome sono intelligenti, tenaci e coraggiosi,
si sono rimboccati le maniche e hanno vinto il concorso. Dare loro
più autonomia e poteri sarà sicuramente un bene.
Ma altri
presidi non sono così. Come capita nelle aziende senza concorrenza e
che non sentono la pressione del mercato, piene di dirigenti non
all’altezza.
È questo che una vera riforma della scuola deve
creare: un sistema che permetta ai suoi clienti di conoscere gli
istituti migliori, con valutazioni oggettive e una vera trasparenza
sul valore della formazione nel mercato del lavoro. Solo allora,
potrà sceglierne bene i capi — cioè i presidi — e
responsabilizzarli. Perché il potere senza responsabilità è
solo arbitrio.
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