mercoledì 6 maggio 2015

I segnali di Renzi all’ex Cavaliere nascosti nell’Italicum


STEFANO FOLLI
La Repubblica 6 maggio 2015
Gli promette di non andare alle urne per dargli il tempo di riorganizzare il partito e arginare l’ascesa di Salvini
Fra le righe dei suoi recenti discorsi il presidente del Consiglio ha mandato un messaggio al suo ex partner nel patto del Nazareno. Ha fatto capire a Berlusconi che è una buona idea procedere sulla via del cosiddetto “partito repubblicano” all’americana, in modo da porre le premesse di uno futuro scontro elettorale fra il centrosinistra (il Pd) e la nuova formazione di centrodestra (per la verità, Renzi si limita a definirla «di destra»).
Qui i sottintesi sono numerosi. In primo luogo si avverte la preoccupazione del premier per la crescita delle liste populiste e anti- sistema (Grillo, Salvini ma anche, in misura minore, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni). Ognuno di questi gruppi fa corsa a sé, ma cosa accadrebbe con il secondo turno previsto dall’Italicum? La riforma elettorale era stata concepita da Renzi come piedistallo per il proprio trionfo (il «partito della nazione») con l’obiettivo di una vittoria al primo turno, ossia con il 40 per cento dei voti. In subordine, il ballottaggio: ma avendo di fronte un Berlusconi in disarmo, pronto a farsi sconfiggere. Tuttavia il crollo di Forza Italia e la parallela ascesa dei partiti anti-sistema sono variabili che forse Renzi non aveva considerato. Variabili da cui discendono non poche insidie.
Ecco allora l’idea di favorire la ricostruzione del centrodestra. Nella speranza che il fronte berlusconiano riesca a riguadagnare un po’ di consensi, tagliando l’erba sotto i piedi dei populisti. Se i «repubblicani» di Arcore conquistassero il diritto al ballottaggio, la minaccia di Salvini e Grillo sarebbe rintuzzata e le urne del secondo turno sorriderebbero al «listone» renziano. E si capisce: un ennesimo partito berlusconiano attirerebbe solo una parte dei voti dei Cinque Stelle o della Lega o degli astenuti al primo turno. Al contrario, chi può escludere che un candidato premier con il volto, ad esempio, del vice-presidente della Camera grillino, Di Maio, otterrebbe consensi trasversali fra gli elettori disillusi, senza partito o decisi a votare comunque contro il governo?
Ne deriva che il messaggio di Renzi ha una sua logica. È come se dicesse a Berlusconi: io non voglio accelerare sulla via delle elezioni, così da lasciarti il tempo di riorganizzare il tuo campo e di costruire un ante-murale contro il fronte anti-sistema; in cambio tu eviterai di farti fagocitare dalla Lega, destinata a uscire dal voto regionale più solida di Forza Italia. Non solo: a Palazzo Madama, tu Berlusconi troverai il modo, non diciamo di resuscitare il patto del Nazareno, ma almeno di impedire che la sinistra del Pd affossi la riforma costituzionale del Senato, ciò che renderebbe vana la legge elettorale immaginata per un sistema monocamerale.
Si tratta solo di segnali, ma significativi. Il problema è che la rinascita del centrodestra non è plausibile in tempi medi. Ha sorpreso molti, ad esempio, l’assenza di Berlusconi e dei suoi, ma anche della Lega, nei giorni della riscossa di Milano. In quel corteo nelle vie della città dove si è sentita l’anima dei milanesi, la destra era di fatto assente. Non aveva capito la posta in gioco. In seguito Salvini e ieri la Gelmini hanno cercato di correre ai ripari, ma forse troppo tardi e troppo poco. In altri tempi un errore così grave non sarebbe stato commesso. Difficile credere che queste carenze, non solo politiche ma culturali, possano essere sostituite da un dinamismo di tipo radicale. Come la tentazione di cavalcare l’onda dei referendum abrogativi dell’Italicum. L’esperienza insegna che questa strategia ha avuto un senso, in circostanze storiche precise, per una forza di minoranza come il partito di Marco Pannella ed Emma Bonino. Nel caso di Forza Italia ha invece il sapore di una mossa improvvisata per nascondere il vuoto politico. Un vuoto che a Renzi non dispiace affatto, purché serva per arginare i pericoli che affiorano ai lati del «partito della nazione». A riprova che l’Italicum non è la medicina che guarisce tutti i mali delle istituzioni.

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