FRANCESCO BEI
La Repubblica 14 maggio 2015
Nessun ministro sostituito ma in gioco
ci sono almeno due sottosegretari e sei presidenti di commissione.
Il conto alla rovescia è iniziato: tra
meno di un mese, dopo le regionali, Renzi premerà il tasto rosso del
“restart”. E darà il via all’ultima fase del governo, quella
che lo traghetterà fino alle prossime elezioni. Riforme economiche,
delega fiscale, sostegno alle imprese, completamento del Jobs Act e
della Buona scuola, e ovviamente nuovo Senato. Nella consapevolezza
che, «come avvenuto con Cameron in Inghilterra, anche noi ci
giochiamo tutto sulla crescita».
Funzionale a questa “fase due” è
anche l’operazione che a palazzo Chigi stanno studiando a tavolino.
Quella di un rafforzamento interno, soprattutto della base
parlamentare del Pd. È un piano che passa da un “rimpastino”,
per offrire a quella parte di minoranza dialogante un coinvolgimento
diretto nella nuova “Srl renziana” che ha preso il posto della
vecchia Ditta di Bersani. Ma il premier non pensa a sostituzioni
nella squadra di governo, i ministri resteranno quelli. Anche
Stefania Giannini, data in partenza fino a qualche mese fa, è ormai
salda in sella a combattere in prima linea per la riforma della
scuola. Lo tsunami investirà invece le commissioni parlamentari,
dove ben sei presidenti — con tutti i loro poteri e la visibilità
mediatica — saranno spazzati via. Presidenti di Forza Italia,
ovviamente. Che hanno iniziato la legislatura in maggioranza e sono
passati da un anno e mezzo all’opposizione. Un’anomalia
parlamentare — i presidenti delle commissioni, proprio per il loro
ruolo delicato, appartengono sempre alla coalizione di governo —
che il premier intende sanare subito dopo il voto. Tanto più che il
7 maggio sono scaduti i due anni canonici, al termine dei quali i
presidenti di commissione vanno riconfermati.
La prassi parlamentare prevede una
conferma scontata e la decapitazione dei sei forzisti sarebbe senza
precedenti. E tuttavia senza precedenti, fanno notare i renziani, è
anche la presenza di presidenti d’opposizione. Dunque alla Camera
dovranno lasciare il proprio ufficio Francesco Sisto alla affari
costituzionali, Elio Vito alla Difesa, Daniele Capezzone alla
Finanze, mentre Galan alla Cultura è stato fatto fuori dai giudici
ma il suo posto non è stato ancora riassegnato. A palazzo Madama
rischiano invece Francesco Nitto Palma alla Giustizia e Altero
Matteoli alla Lavori Pubblici.
Se questa è la situazione in
Parlamento, per il governo il premier prevede solo minimi ritocchi.
Chi è andato via sarà sostituito ma nulla di più. Al posto della
Lanzetta al ministero degli Affari regionali si riparla di Gaetano
Quagliariello; la poltrona di viceministro allo Sviluppo economico
che era di Claudio De Vincenti, diventato sottosegretario alla
presidenza, dovrebbe andare a Scelta civica (che ha perso, con il
passaggio della Giannini al Pd, l’unico posto in Consiglio dei
ministri); a Ncd andrà un sottosegretario alle Infrastrutture, per
coprire il posto lasciato da Antonio Gentile.
Se è chiaro chi se ne andrà, resta
ancora aperta la partita di chi sarà eletto al posto dei forzisti
sacrificati. Se la Affari costituzionali della Camera, una
commissione chiave, dovrebbe essere coperta da un renziano di provata
fede come Emanuele Fiano e alla Cultura si pensa da tempo alla
renziana Flavia Piccoli Nardelli, per le altre presidenze il leader
del Pd guarda piuttosto alla minoranza più dialogante. E sarà tra
quella quarantina di deputati di Area riformista, che ieri si sono
incontrati alla Camera per disconoscere la leadership di Roberto
Speranza, che andranno cercati le nuove guide delle commissioni.
Quanto al Senato, molto dipenderà anche da quello che accadrà a
Forza Italia dopo le regionali. «Se davvero ci sarà il Big Bang che
ci hanno preannunciato — spiffera un renziano della cerchia stretta
— allora non è escluso che una o due presidenze di commissione
possano restare a quelli tra loro che sceglieranno di sostenere il
governo». Altrimenti per il posto di Nitto Palma già si parla di
Beppe Lumia.
In questa girandola di poltrone, c’è
n’è però una che resterà ferma. È quella del capogruppo facente
funzioni Ettore Rosato, franceschiniano e fedele alla linea di
palazzo Chigi. L’assemblea per eleggerlo è stata spostata a dopo
le regionali, perché anche la sua conferma è un tassello
dell’operazione per accontentare le varie anime del partito. E
arrivare al Congresso prima delle elezioni con il vento in poppa.
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