dal blog CONFINI
di Pierluigi Mele
Dopo l’approvazione, da parte della
Camera, della legge elettorale il PD è attraversato da forte
tensione. C’è da registrare l’uscita di Pippo Civati dal gruppo
del PD alla Camera. Altri lo seguiranno? Ne discutiamo con
Giorgio Tonini, vice-presidente dei senatori PD.
Senatore Tonini, Renzi vince la
battaglia sulla legge elettorale. Ma secondo alcuni è una vittoria
sulle macerie: il dissenso pesante di alcuni leader della “ditta”,
le opposizioni che lasciano l’aula. Insomma vince smentendo se
stesso (visto che aveva affermato che le regole dovevano essere
condivise). Insomma, davvero non si poteva evitare la forzatura? L’ex
direttore del Corriere, per questa forzatura, ha definito Renzi un
“maleducato di talento”. Ha ragione De Bortoli?
Non so a cosa si riferisse De Bortoli.
Non credo volesse esprimere un apprezzamento sul piano personale.
Forse si riferiva al modo di fare politica di Renzi, che certo non
lascia molto spazio ai formalismi e alle ritualità, ma va al
sodo, al nocciolo della questione. E il nocciolo della questione
è, in effetti, parecchio maleducato. Mi riferisco alla durezza
dei problemi che affliggono il paese e all’urgenza di
affrontarli con determinazione. Prendiamo il caso delle legge
elettorale. Io ho ancora nelle orecchie la ramanzina che due
anni fa, all’inizio di questa legislatura, il presidente
Napolitano aveva rivolto a noi grandi elettori — deputati,
senatori, consiglieri regionali — che lo avevamo appena
rieletto Capo dello Stato. Napolitano ci bacchettava, in un modo che
De Bortoli forse definirebbe maleducato, certamente in modo
giustamente rude, per non essere stati capaci, in anni di
inconcludenza, di trovare l’accordo su una riforma della legge
elettorale e della seconda parte della Costituzione. Da quella
ramanzina nacque il governo Letta, col preciso compito di fare
le riforme. Ma la condanna di Berlusconi, il voto sulla sua
decadenza da senatore e la rottura in seno al centrodestra,
avevano riportato la situazione al punto di partenza, in quell’eterno
gioco dell’oca, al quale tanto assomiglia la politica
italiana. Renzi ha avuto il merito di riportare Berlusconi al tavolo
delle riforme e di stringere un accordo di merito su di esse. Un
accordo che è stato modificato e perfezionato in parlamento e
che ha portato ad un voto largo al Senato sull’Italicum.
Poi, Forza Italia si è sfilata di
nuovo, stavolta a causa dell’elezione del presidente Mattarella,
a giudizio di quel partito non sufficientemente condivisa. A
quel punto avevamo tre strade davanti a noi: arrenderci, gettare
la spugna per l’ennesima volta, davanti agli incomprensibili
bizantinismi della politica italiana; oppure andare avanti
modificando il testo votato al Senato, nel senso richiesto dalla
minoranza interna al Pd, così avallando l’accusa di Forza Italia
di voler scrivere le regole da soli; o invece portare
all’approvazione definitiva il testo frutto dell’accordo fatto
al Senato, anche accettando di pagare un prezzo interno al Pd,
ma lasciando tutta intera a Forza Italia la responsabilità di
rinnegarlo, peraltro per motivazioni estranee al merito della
riforma. Renzi, e con lui la stragrande maggioranza dei deputati
del Pd, ha scelto questa ultima strada, la strada della serietà.
Dopo anni, per non dire decenni, di rinvii e fallimenti, stavolta si
fa sul serio. C’è un testo, un buon testo, che è stato
votato dal Senato a larga maggioranza. Per noi si vota quello, perché
“pacta sunt servanda”. Se per altri non è così, saranno loro a
doverlo spiegare ai cittadini.
Io non penso affatto che in questo modo
Renzi abbia rinnegato il suo impegno per riforme condivise,
semmai è il contrario. E non penso neppure che il voto alla Camera
sull’Italicum sia una vittoria sulle macerie: a meno che non
ci si riferisca alle macerie dei tatticismi,
dell’inconcludenza, della irresponsabilità.
Veniamo alla legge. Certo è che il
Porcellum, dalla Corte dichiarato incostituzionale tra l’altro
per le liste bloccate, ora ce le ritroviamo nell’italicum. Non c’e
il rischio di incostituzionalità?
Le liste bloccate non ci sono
nell’Italicum. I deputati saranno eletti in parte con le
preferenze, in parte con l’uninominale. In entrambi i casi,
sarà garantito il vero e unico vincolo posto dalla sentenza
della Corte, quello della riconoscibilità degli eletti da parte
degli elettori. La Corte non ha infatti bocciato il Porcellum
perché non prevedeva il voto di preferenza: se avesse detto quello
che le fanno dire molti commentatori male informati, la Corte
avrebbe messo fuorilegge, per così dire, le leggi elettorali di
quasi tutta Europa, posto che il voto di preferenza c’è in Grecia
e poco oltre. La Corte ha condannato il Porcellum perché si
basava su lunghe liste bloccate, che rendevano quasi impossibile
per gli elettori sapere per quale persona stavano votando, quando
votavano per un simbolo di partito. La Corte ha dunque chiesto
al Parlamento di prevedere un meccanismo che eviti questo
problema, scegliendo tra i vari possibili: liste corte, anche
bloccate (sul modello Spagnolo o tedesco), collegi uninominali (come
in Francia o nel Regno Unito), o anche liste corte miste, in
parte bloccate in parte no. L’Italicum segue questo ultimo esempio
proposto dalla Corte. E prevede un sistema per l’appunto
misto, basato su liste corte all’interno delle quali l’elettore
può scegliere due nomi, un uomo e una donna, ai quali dare la
sua preferenza; e su un cosiddetto ”capolista” bloccato, il
nome del quale è stampato sulla scheda accanto al simbolo del
partito che lo candida, sul modello del sistema uninominale. Si
può condividere o meno questo meccanismo, che ha pregi e
difetti come qualunque meccanismo. Ma non si può dire che non
rispetti, in modo scrupoloso, il dettato della Corte
costituzionale.
Quali sono i pregi e i limiti di
questa legge?
Il pregio principale mi pare la
garanzia di un vincitore. Al primo turno, se la lista che arriva
prima prende almeno il 40 per cento dei voti, o in caso
contrario al ballottaggio tra le due più votate, un partito
vince il diritto e la responsabilità di governare il paese,
attraverso un (moderato) premio di governabilità che gli
assegna 340 seggi su 630. Non sarà più possibile che si verifichi
un risultato nullo, come quello del 2013. Naturalmente, perché
questo obiettivo si realizzi appieno, è necessario completare
la riforma elettorale con quella costituzionale, superando
l’attuale bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in
una Camera delle autonomie, con una importante funzione di
raccordo tra l’attività legislativa statale e quella regionale,
entrambe ricomprese in un quadro europeo, ma senza più il
potere di dare o togliere la fiducia al governo, che diviene
prerogativa esclusiva della Camera dei deputati. Quanto ai limiti,
piuttosto parlerei di rischi, il principale dei quali è che
sull’Italicum si riversi un’aspettativa eccessiva per
qualunque legge elettorale. A una legge elettorale si può
chiedere, se si vuole, un vincitore chiaro e certo. E l’Italicum,
abbinato alla riforma del Senato, questo risultato lo dà. A una
legge elettorale non si può invece chiedere la garanzia della
stabilità e della durata dei governi. Mi spiego meglio: al
partito che vince le elezioni l’Italicum assegna alla Camera
una maggioranza di 25 seggi, più che sufficiente per far
partire un governo, il governo del leader del partito vincitore. Ma
cinque anni sono lunghi. E basteranno 25 deputati, su 340,
almeno 240 dei quali eletti con le preferenze, per mandare il
presidente del Consiglio a dimettersi al Quirinale. Altro che
strapotere del premier, uomo solo al comando, ritorno del
fascismo, legge Acerbo e simili stupidaggini! Perché il
rischio dell’instabilità non si verifichi, sono necessarie
due condizioni. La prima è il rafforzamento della tenuta
interna dei partiti e dei gruppi. Se si afferma la prassi, che si sta
pericolosamente instaurando anche nel Pd, secondo la quale in un
gruppo parlamentare di maggioranza ci si comporta “secondo
coscienza” ogni volta che lo si ritiene opportuno, perfino sulla
fiducia al governo, è evidente che nessun gruppo, per quanto
vincitore delle elezioni e assegnatario del premio di
maggioranza, potrà mai garantire la stabilità. Avremo quindi di
nuovo crisi di governo, elezioni anticipate, o governi “non
eletti dai cittadini”, come ci si lamenta siano stati i governi
Monti, Letta e Renzi. Se non si vuole che questo si verifichi,
bisognerà lavorare a ristabilire regole di disciplina interna
ai gruppi, assistite e rafforzate da norme antiframmentazione da
prevedere nei regolamenti parlamentari. In caso contrario, è
bene sapere che l’unico rimedio alla precarietà dei governi
sarà procedere ad una revisione della forma di governo, rafforzando
davvero i poteri del premier, o addirittura optando per un
modello semipresidenziale. Se non stiamo attenti, potrebbe nascere
un forte movimento politico in questo senso…
Veniamo al PD. Il suo partito è
continuamente attraversato da forti movimenti “tellurici “. Mai
come questa volta la spaccatura è stata pesante. Riuscirà Renzi a
recuperare un rapporto dignitoso con la minoranza, oppure
passerà alla storia come il segretario della scissione? Quali
potranno essere gli argomenti di Renzi, nei confronti della
minoranza, per evitare traumatiche divisioni?
Un partito grande non può essere un
monolite. E che in un grande partito di centrosinistra ci siano idee,
proposte, perfino visioni diverse, è un dato di fatto assolutamente
fisiologico. In particolare, nel Pd è comprensibile che ci
siano due grandi filoni di pensiero. Da una parte, c’è chi pensa
al Partito democratico come ad un partito nuovo, per cultura
politica, modello organizzativo, insediamento elettorale e
classe dirigente, rispetto ai partiti storici della sinistra
italiana, a cominciare dal Pci, così come rispetto alla stessa
componente di sinistra della Dc. Un partito, fu definito da
Walter Veltroni, “a vocazione maggioritaria”, per significare la
spinta ad uscire dai confini tradizionali, sociali, culturali e
perfino territoriali, della sinistra italiana, da sempre
minoritari, per proporsi invece, attraverso una nuova sintesi
politico-programmatica, come “partito del paese” (espressione
che ho sempre preferito a quella, di derivazione togliattiana,
proposta da Reichlin, di ”partito della nazione”).
Dall’altra, c’è invece chi vede nel Pd la continuazione di
quella storia, o di quelle storie, sotto nuove spoglie. Bersani
vinse il congresso nel 2009 con lo slogan “diamo un senso a
questa storia”, intendendo che nella versione, accusata di
“nuovismo”, di Veltroni, il Pd aveva perso il senso della
sua storia. Ma il Pd bersaniano, il Pd che più ha rilanciato la
continuità con la storia della sinistra italiana, il Pd che ha
pensato se stesso come figlio diretto dell’Emilia rossa e del
compromesso storico, è un Pd che ha perso, prima nel paese,
scoprendosi ancora una volta radicalmente minoritario, e poi
nello stesso corpo del partito. Renzi ha riproposto e
rilanciato, vorrei dire portato alle estreme conseguenze, con
energia e freschezza e anche con una certa ”maleducata”
ruvidezza (la “rottamazione”…) l’idea veltroniana della
discontinuità. Fin qui ha inanellato una serie sorprendente di
vittorie tattiche, sbaragliando tutti gli avversari, sia interni
che esterni e portando il Pd al risultato elettorale record, in
Italia e in Europa, del 40 per cento. Ma lui per primo sa che
molte altre prove lo attendono: la prova di governo, sui terreni
difficilissimi della politica estera ed europea, del rilancio
dell’economia e delle riforme; e la prova del consenso, nel Pd
e nel paese. La partita è dunque aperta. Davanti alle attuali
minoranze del Pd, che a lungo avevano fatto il bello e il
cattivo tempo nell’attuale partito e in quelli che lo hanno
preceduto, sta la scelta tra una strategia di ostruzionismo
distruttivo, contro Renzi costi quel che costi, anche a costo di
minare le regole fondamentali dello stare insieme, come la lealtà di
chi perde il confronto democratico nei riguardi di chi lo vince,
o invece quella di ricostruire una prospettiva alternativa a Renzi
su basi nuove, che mi parrebbe non possa prendere le mosse se non da
un franco interrogarsi sulle ragioni della duplice sconfitta del
Pd bersaniano.
Parliamo di Enrico Letta. Dopo più di
un anno è tornato sulla scena. Va a Parigi per insegnare.
Eppure alcuni pensano che sarà il principale antagonista di Renzi
nel partito. Cosa pensa di Letta?
Di Letta penso tutto il bene possibile
da molti anni. Penso che, anche grazie alla giovane età abbinata
ad una certo non comune esperienza, abbia moltissimo da dare al Pd e
al paese. Penso che i toni scelti in questi giorni, per una
uscita di scena che in realtà è un rientro, non siano stati
del tutto all’altezza della stima che si è conquistato nel
giudizio di tanti.
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