domenica 24 maggio 2015

Il «maggio radioso» e il rebus di Putin. A chi lasciare in eredità la Russia?.


Corriere della Sera 23/05/15
Il reportage Mosca.
Ha celebrato tre volte in due giorni, Vladimir Putin, i 70 anni della vittoria russa nella Grande Guerra Patriottica. Il 9 maggio sulla Piazza Rossa, con i leader di Cina e India, i nuovi amici che l’infelice diserzione occidentale gli ha messo accanto suo malgrado. Lo stesso giorno, in testa alla «marcia degli immortali» che ha visto 500 mila moscoviti (imitati da oltre 10 milioni di persone in tutta la Russia) sfilare con le foto dei parenti morti nella lotta al nazismo. L’indomani, accogliendo Angela Merkel, venuta a rendere omaggio alle vittime russe del Terzo Reich. 
 Ma la sua vittoria personale, lo Zar del Cremlino, l’ha colta tre giorni dopo il «den pobiedij» a Soci, ricevendo il segretario di Stato americano John Kerry. Si è sciolto in poche ore al sole del Mar Nero, il ghiaccio dei rapporti di vertice tra Mosca e Washington, che l’Amministrazione aveva congelato oltre un anno fa, sull’onda della crisi Ucraina, culminata nell’annessione della Crimea. Dopo aver guidato la carica per punire e isolare Putin, escludendolo dal G8, mettendo al bando i suoi oligarchi, imponendo dure sanzioni alla Russia e assistendo sul piano economico e militare il governo di Kiev, la Casa Bianca è sembrata prendere atto della realtà: la politica dell’isolamento non ha prodotto gli effetti sperati. «Pensavano che la Russia fosse così dipendente dal mercato globale, che bastasse metterle un po’ di paura sul piano economico, per farla cedere. Non è così. Anzi, le contro-sanzioni russe hanno fatto molto più male alle aziende occidentali, soprattutto europee», spiega Viktor Lukyanov, esperto di politica estera, direttore di Russia in Global Affairs . 
 Certo la posizione americana sull’Ucraina non è affatto mutata. Certo la fine dell’embargo non è per domani, anche se Kerry a Sochi ha per la prima volta legato esplicitamente la piena applicazione degli accordi di Minsk a una sua cessazione. Ma il cambio di passo è palese e riflette una verità evidente per sé: «Gli americani — dice Lukyanov — hanno capito che in Ucraina ci sono tempi lunghi per ogni soluzione praticabile, mentre loro hanno bisogno della Russia ora e subito. Ci sono temi come l’Iran e le crisi in Medio Oriente, sui quali l’America non può fare alcun progresso senza l’aiuto di Mosca. Nella trattativa nucleare con Teheran poi, Obama si gioca il suo posto nella storia». 
 Ma il «maggio radioso» di Vladimir Putin presenta anche aspetti più problematici e ambigui. Nonostante la crisi economica continui a mordere, sia pure con qualche lieve miglioramento sul fronte del rublo e della produzione industriale, la sua popolarità non teme confronti. Il 70% dei russi pensa che sotto di lui la Russia abbia riacquistato il rango di Grande Potenza. E la parata militare del 9 maggio, la più grande a memoria d’uomo con la messa in mostra dei nuovi gioielli dell’arsenale del Cremlino, dal carro Armata t-14 ai missili intercontinentali Yars, lo ha sottolineato in modo plastico. Di più, nulla sembra poter mettere in discussione la stabilità del sistema. Neanche l’assassinio del leader d’opposizione Boris Nemtsov, probabilmente ordito da mano cecena non certo per fare un favore a Putin, ha innescato dinamiche significative contro il Cremlino. 
 Eppure è proprio nella solennità, nella retorica e nella forza delle celebrazioni del 9 maggio, che si cela uno dei rovelli dello Zar. «Di fronte a una certa stanchezza ideologica della mistica anti-occidentale, alimentata dall’Ucraina, Putin ha solo il passato sovietico come fonte di legittimazione. E lui lo sfrutta ad arte. Ma non è una ricetta per il futuro», dice Lev Gudkov, direttore del Centro Levada. È un’analisi in parte condivisa anche da Gleb Pavlovsky, il politologo che fu consigliere di Vladimir Vladimirovich, prima di diventarne uno dei suoi critici dopo la sua decisione di ricandidarsi nel 2012: «Un’operazione di così alto profilo come quella del 9 maggio, preparata per oltre un anno, è il tentativo di costruire una religione civile intorno al potere, per sanare la contraddizione tra burocrazia e uomo della strada. Non so se riuscirà, ma la direzione è quella». 
 Interessante è notare che tutta l’intelligentsia, sia quella critica che quella amica, concordi nell’indicare l’assenza di un’idea per la Russia di domani come il principale problema di Putin, il quale nella dostojevskiana divisione dei russi tra scacchisti e giocatori d’azzardo, si conferma piuttosto vicino a questa seconda indole. 
 Perfino il politologo Sergej Markov, intellettuale in sintonia col Cremlino, ammette che «in questa fase siamo solo reattivi, ma non c’è alcuna idea di sviluppo e di collocazione strategica. Quella a Occidente si è chiusa, ma non è semplice trovarne un’altra». Secondo Pavlovski, Putin si trova «davanti a un rebus antico» del potere russo: «Non ha problemi a breve, verrà di sicuro rieletto nel 2018. Ma non ha ancora trovato la soluzione per trasferire il carisma dalla persona alle istituzioni, senza che crolli tutto. Creare il paesaggio politico, dove può avvenire la transizione, è la sfida con cui dovrà misurarsi». Con lo sguardo ben rivolto al passato, ma privo di una visione per il futuro, Putin assomiglia così a un Giano bifronte, dimezzato. E se non riuscisse a darsi la metà che gli manca, lo Zar di facce rischierebbe di perderne due.

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