Corriere della Sera 23/05/15
Il reportage Mosca.
Ha celebrato tre volte in due giorni,
Vladimir Putin, i 70 anni della vittoria russa nella Grande Guerra
Patriottica. Il 9 maggio sulla Piazza Rossa, con i leader di Cina e
India, i nuovi amici che l’infelice diserzione occidentale gli ha
messo accanto suo malgrado. Lo stesso giorno, in testa alla «marcia
degli immortali» che ha visto 500 mila moscoviti (imitati da oltre
10 milioni di persone in tutta la Russia) sfilare con le foto dei
parenti morti nella lotta al nazismo. L’indomani, accogliendo
Angela Merkel, venuta a rendere omaggio alle vittime russe del Terzo
Reich.
Ma la sua vittoria personale, lo Zar del Cremlino, l’ha
colta tre giorni dopo il «den pobiedij» a Soci, ricevendo il
segretario di Stato americano John Kerry. Si è sciolto in poche ore
al sole del Mar Nero, il ghiaccio dei rapporti di vertice tra Mosca e
Washington, che l’Amministrazione aveva congelato oltre un anno fa,
sull’onda della crisi Ucraina, culminata nell’annessione della
Crimea. Dopo aver guidato la carica per punire e isolare Putin,
escludendolo dal G8, mettendo al bando i suoi oligarchi, imponendo
dure sanzioni alla Russia e assistendo sul piano economico e militare
il governo di Kiev, la Casa Bianca è sembrata prendere atto della
realtà: la politica dell’isolamento non ha prodotto gli effetti
sperati. «Pensavano che la Russia fosse così dipendente dal mercato
globale, che bastasse metterle un po’ di paura sul piano economico,
per farla cedere. Non è così. Anzi, le contro-sanzioni russe hanno
fatto molto più male alle aziende occidentali, soprattutto europee»,
spiega Viktor Lukyanov, esperto di politica estera, direttore di
Russia in Global Affairs .
Certo la posizione americana
sull’Ucraina non è affatto mutata. Certo la fine dell’embargo
non è per domani, anche se Kerry a Sochi ha per la prima volta
legato esplicitamente la piena applicazione degli accordi di Minsk a
una sua cessazione. Ma il cambio di passo è palese e riflette una
verità evidente per sé: «Gli americani — dice Lukyanov — hanno
capito che in Ucraina ci sono tempi lunghi per ogni soluzione
praticabile, mentre loro hanno bisogno della Russia ora e subito. Ci
sono temi come l’Iran e le crisi in Medio Oriente, sui quali
l’America non può fare alcun progresso senza l’aiuto di Mosca.
Nella trattativa nucleare con Teheran poi, Obama si gioca il suo
posto nella storia».
Ma il «maggio radioso» di Vladimir Putin
presenta anche aspetti più problematici e ambigui. Nonostante la
crisi economica continui a mordere, sia pure con qualche lieve
miglioramento sul fronte del rublo e della produzione industriale, la
sua popolarità non teme confronti. Il 70% dei russi pensa che sotto
di lui la Russia abbia riacquistato il rango di Grande Potenza. E la
parata militare del 9 maggio, la più grande a memoria d’uomo con
la messa in mostra dei nuovi gioielli dell’arsenale del Cremlino,
dal carro Armata t-14 ai missili intercontinentali Yars, lo ha
sottolineato in modo plastico. Di più, nulla sembra poter mettere in
discussione la stabilità del sistema. Neanche l’assassinio del
leader d’opposizione Boris Nemtsov, probabilmente ordito da mano
cecena non certo per fare un favore a Putin, ha innescato dinamiche
significative contro il Cremlino.
Eppure è proprio nella
solennità, nella retorica e nella forza delle celebrazioni del 9
maggio, che si cela uno dei rovelli dello Zar. «Di fronte a una
certa stanchezza ideologica della mistica anti-occidentale,
alimentata dall’Ucraina, Putin ha solo il passato sovietico come
fonte di legittimazione. E lui lo sfrutta ad arte. Ma non è una
ricetta per il futuro», dice Lev Gudkov, direttore del Centro
Levada. È un’analisi in parte condivisa anche da Gleb Pavlovsky,
il politologo che fu consigliere di Vladimir Vladimirovich, prima di
diventarne uno dei suoi critici dopo la sua decisione di ricandidarsi
nel 2012: «Un’operazione di così alto profilo come quella del 9
maggio, preparata per oltre un anno, è il tentativo di costruire una
religione civile intorno al potere, per sanare la contraddizione tra
burocrazia e uomo della strada. Non so se riuscirà, ma la direzione
è quella».
Interessante è notare che tutta l’intelligentsia,
sia quella critica che quella amica, concordi nell’indicare
l’assenza di un’idea per la Russia di domani come il principale
problema di Putin, il quale nella dostojevskiana divisione dei russi
tra scacchisti e giocatori d’azzardo, si conferma piuttosto vicino
a questa seconda indole.
Perfino il politologo Sergej Markov,
intellettuale in sintonia col Cremlino, ammette che «in questa fase
siamo solo reattivi, ma non c’è alcuna idea di sviluppo e di
collocazione strategica. Quella a Occidente si è chiusa, ma non è
semplice trovarne un’altra». Secondo Pavlovski, Putin si trova
«davanti a un rebus antico» del potere russo: «Non ha problemi a
breve, verrà di sicuro rieletto nel 2018. Ma non ha ancora trovato
la soluzione per trasferire il carisma dalla persona alle
istituzioni, senza che crolli tutto. Creare il paesaggio politico,
dove può avvenire la transizione, è la sfida con cui dovrà
misurarsi». Con lo sguardo ben rivolto al passato, ma privo di una
visione per il futuro, Putin assomiglia così a un Giano bifronte,
dimezzato. E se non riuscisse a darsi la metà che gli manca, lo Zar
di facce rischierebbe di perderne due.
Nessun commento:
Posta un commento