Corriere della Sera del 01/05/15
Michele Salvati
Questa fase della vita politica
italiana — il «tutti contro Renzi» sul tema della legge
elettorale — sembra la meno adatta a riflessioni pacate sulle
radici lontane della crisi che stiamo vivendo.
Per semplificare
il tentativo, non mi soffermo sul perché siano contro Renzi
movimenti o partiti populisti e antieuropei: esclusi dal gioco, ogni
pretesto è buono per aggredire il governo. E lascio anche da parte
quel partito, Forza Italia, che ai tempi del patto del Nazareno Renzi
pensava di coinvolgere nel gioco, come rappresentante di un
elettorato con il quale poteva instaurarsi una dialettica democratica
simile a quella che si svolge in altri grandi Paesi europei,
centrodestra contro centrosinistra. A Berlusconi non è riuscito il
tentativo (ma c’è mai stato?) di «trasformare il carisma in
istituzione», di stabilizzare e dare una consistenza organizzativa
al suo partito e un indirizzo politico al suo popolo: compito certo
difficilissimo in Italia, ma che ad altri leader carismatici è pur
riuscito altrove. Perché non sia riuscito a lui per ora nessuno l’ha
spiegato meglio di Giovanni Orsina ( Il berlusconismo nella storia
d’Italia , Marsilio) e devo lasciare il lettore in sua
compagnia.
Vengo allora al Pd. Nessuno, credo, si lascia
ingannare dalla maggior correttezza della polemica — i toni di
Salvini non si adattano a una polemica interna, e poi tradizione e
cultura ancora un poco contano — ma l’ostilità e l’insofferenza
della minoranza per il segretario sono ancor più intense di quelle
manifestate dai partiti di opposizione, cosa che spesso avviene nei
conflitti in famiglia. E nessuno, credo, è convinto dall’idea che
queste difficoltà siano dovute a incomponibili conflitti sul merito
delle riforme istituzionali proposte da Renzi, come invece la
minoranza vorrebbe far credere. Tanti commentatori ci hanno già
ricordato, con nomi e date, che una concezione di democrazia
maggioritaria come quella adottata dall’attuale proposta di legge
elettorale era già discussa e largamente accettata all’interno dei
partiti dell’Ulivo, e che l’idea di un Senato senza potere
fiduciario e invece con una funzione di rappresentanza delle
autonomie era un obiettivo sul quale esisteva un ampio accordo. Anche
sul rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, pur
temperato da istituzioni di garanzia che il progetto Renzi lascia
inalterate nei loro poteri, il consenso nei partiti dell’Ulivo, poi
confluiti nel Partito democratico, era molto ampio. E lascio da parte
l’incredibile polemica sulle preferenze: contro le preferenze era
schierato l’intero Pds-Ds, e una parte non piccola di
Margherita.
Facciamo allora un piccolo esperimento intellettuale
e poniamoci la seguente domanda ipotetica: se le riforme che ora vuol
fare Renzi le avesse proposte Bersani con l’avallo del vecchio
gruppo dirigente ex comunista ed ex sinistra dc — alla luce della
storia che ho brevemente ricordato non è un’ipotesi inverosimile,
le premesse c’erano tutte — ci sarebbe forse stato uno
scatenamento polemico di questa intensità? Che arriva a riesumare il
vecchio slogan di «minaccia alla democrazia» già usato ai tempi di
Berlusconi? Quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa
reazione? Non può trattarsi solo della comprensibile resistenza di
un ceto dirigente sconfitto: in un partito sano la sconfitta si
archivia e ci si prepara a una rivincita in futuro, confidando che i
fatti e la propria azione politica dimostrino l’erroneità della
linea adottata dal leader. In gioco c’è qualcosa di più grosso,
il passaggio da una concezione di partito a un’altra. Da un partito
di notabili in servizio permanente effettivo, in cui la strategia del
partito emerge da accomodamenti e mediazioni continue, a un partito
del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è
finito e l’ulteriore dilazione nella decisione contrasterebbe con
l’efficacia della decisione stessa. Un partito che non guarda
prevalentemente al proprio interno, ma guarda alla sua azione di
governo e al consenso che questa può riscuotere nel Paese. Se si
aggiunge che — mirando al successo esterno e non alla conservazione
delle oligarchie e dei santuari ideologici cui prestano osservanza —
il leader può essere indotto a forti modifiche delle strategie
adottate in passato, si vedono bene i tabù che Renzi ha abbattuto e
si capisce la violenza della reazione: l’opposizione è stata
sbalzata in un mondo radicalmente estraneo a quello cui si era
assuefatta.
È il nuovo mondo che Mauro Calise spiega assai bene
nel suo saggio sull’ultimo numero de «il Mulino» ( La democrazia
del leader ) e di cui consiglio una lettura attenta, ai dissidenti
del Pd e non solo. Il governo del leader non è una minaccia per la
democrazia — non siamo a Weimar — ma un tentativo di conciliare
democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera
minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere.
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