Intervista a Michele Nicoletti
Pierluigi Mele
Confini 13 maggio 2015
In questi giorni nel PD, e
nell’opinione pubblica, si sta svolgendo un dibattito, molto
polemico, sull’identità del PD: sul suo essere o meno un partito
di sinistra. Ne parliamo con Michele Nicoletti, professore di
Filosofia della Politica ed esponente di primo piano della cultura
cattolica democratica. Nicoletti è attualmente deputato trentino
del PD e Presidente della delegazione italiana all’assemblea
Parlamentare del Consiglio d’Europa.
Onorevole Nicoletti, in questi ultimi
giorni, dopo l’approvazione della legge, ha visto l’addio di
Pippo Civati , dell’eurodeputata Elly Schlein e presto anche la
sua collega Michela Marzano, stando ad una intervista su Repubblica,
lascerà il partito. Anche Stefano Fassina sarebbe intenzionato a
farlo. Chi lo ha fatto ha affermato la stessa cosa: l’allontanamento
dell’attuale gruppo dirigente del Partito, in primis Renzi, dai
valori della sinistra o, comunque, del centrosinistra. Per lei è
così?
La decisione che alcuni hanno assunto
o stanno assumendo di lasciare il PD mi spiace moltissimo. Capisco
coloro che non si riconoscono nel PD perché appartengono all’area
della sinistra radicale – che pure svolge una funzione essenziale
di stimolo e di critica nei confronti di tutta la sinistra e più in
generale di tutta la politica – ma quanti invece si sentono dentro
la storia di una sinistra o di un centrosinistra di governo
sbagliano a lasciare il PD. E’ la tragica debolezza della politica
italiana quella di non riuscire a dare stabilità ai suoi soggetti
politici e in particolare ai partiti. Si guardi agli altri Paesi: lì
esistono partiti che hanno storie di cinquanta, cento,
centocinquant’anni e con la loro stabilità, stabilizzano la
democrazia stessa. All’estero i partiti vincono o perdono le
elezioni, adottano linee più o meno discutibili, scelgono dirigenti
più o meno capaci, ma non per questo si disfano ogni due o tre
anni. Il PD è stato il frutto di una incredibile e straordinaria
gestazione, lo abbiamo intensamente voluto per anni e sarebbe una
follia ora lasciarlo o disfarlo perché non risponde a questa o
quella aspettativa di una sua componente. La sinistra deve decidere
se vuole un piccolo partito-setta o un grande partito popolare in
cui, necessariamente, abitano anime diverse, ma la cui direzione
spetta a chi vince il congresso. Io non credo affatto che il PD di
oggi stia allontanandosi dai valori della sinistra. Solo che li
vuole declinare dentro la grande famiglia dei “democratici” che
è cosa diversa dalle socialdemocrazie tradizionali. Si possono
discutere metodi o tattiche, ma le scelte di fondo di una più forte
Europa politica al servizio della crescita, di politiche comuni
sull’immigrazione, di europeizzazione delle nostre istituzioni, di
tentativo di sostegno all’occupazione giovanile, di sforzo di una
politica redistributiva, insomma l’intenzione che continua a
muovere il PD è inequivocabilmente progressista.
Il panorama dei critici, di Renzi a
sinistra è ampio: dalla Camusso, che ha addirittura proposto di
votare scheda bianca alle elezioni del Veneto, passando per Landini
fino ad arrivare a Eugenio Scalfari (che nel suo editoriale di
domenica scorsa definisce il PD di Renzi come un partito di
“centro”). Stanno esagerando secondo lei, oppure le loro
critiche un fondamento? Non vede il rischio della deriva verso
l’indistinto “partito della nazione”?
Molte voci critiche sono frutto di
passioni personali: le rispetto, ma se il tema è la simpatia o
l’antipatia del premier non andiamo da nessuna parte. Sul piano
politico molte critiche vengono da chi avrebbe voluto una diversa
evoluzione della sinistra italiana nel senso tradizionale del
socialismo europeo. Ma da più di vent’anni a questa parte – dai
democratici di sinistra all’Ulivo di Prodi al PD – la sinistra
italiana sta facendo uno sforzo diverso cercando di fondarsi su
un’idea di “democrazia” che supera e invera le aspirazioni di
socialisti, cattolici democratici, liberaldemocratici. È un
tentativo faticoso, anche perché poche energie vengono dedicate
all’approfondimento teorico, ma si è rivelato assai più di
successo dei modelli socialdemocratici tradizionali che non mi pare,
in Europa, godano di buona salute. Oggi il tema è la democrazia, la
democrazia, la democrazia. A livello locale, nazionale, europeo,
internazionale. La sua capacità di produrre difesa dei diritti
fondamentali e giustizia e benessere attraverso un nuovo compromesso
con l’economia di mercato. Quanto al “partito della nazione”
l’espressione non mi piace, ma la intendo nel senso di Gramsci,
Gobetti, Degasperi: un partito che sappia portare a compimento il
Risorgimento italiano. Oggi vuol dire non solo l’Unità d’Italia,
ma il protagonismo italiano nell’Unità europea. E un nuovo
Rinascimento che ridia dignità all’essere italiani nel mondo dopo
anni di umiliazioni dei governi di centrodestra. Ma, ben inteso,
rimanendo quello che siamo: il partito che occupa saldamente lo
spazio del centrosinistra e che è capace di attirare a sé un ampio
elettorato.
Cosa dovrebbe fare Renzi, secondo lei,
per recuperare questo diffuso malcontento?
Dovrebbe prendere il toro per le corna
e affrontare i nodi ideali, istituzionali, sociali e politici.
Aprire una grande discussione sull’identità ideale del PD, su
democrazia, cristianesimo, socialismo, libertà rilanciando una
nuova passione ideale per la democrazia “senza aggettivi” e
proponendo a tutti i nostri partner europei questa sfida. Affrontare
in campo aperto la sfida di chi dice che siamo alla democratura e
spiegare con quali istituzioni vogliamo rafforzare la democrazia a
livello di comunità locali, nazionale, europea e internazionale. Si
vedrà così che legge elettorale e riforma della costituzione –
se lette sull’orizzonte europeo – rafforzano e non indeboliscono
il potere dei cittadini. Aprire infine una grande discussione sul
modello di società a cui vogliamo arrivare: quali idea di relazioni
sociali, industriali, generazionali, interculturali vogliamo
rafforzare e tornare così a dialogare con i mondi sociali
interessati a politiche di emancipazione e non di conservazione. Il
modo migliore per ritrovare l’unità della sinistra è affrontare
i grandi temi, cercare le sintesi ideali. Le mediazioni politiche
seguiranno.
Per Renzi ci sono, lui lo ha detto con
la solita “brutalità”, ci sono due sinistre: una che vuole
vincere, e una che vuole perdere (definita come “masochista”).
Forse è troppo semplicistico così. Le chiedo: tutti vogliono
vincere, ma come ? Cioè si vince proponendo valori, programmi,
idee. Per lei è chiaro l’idea di società che ha in mente il
Premier? Io vedo solo pragmatismo…..
Intanto diciamo che vincere non è una
colpa. La ricerca del successo, della possibilità della
realizzazione delle proprie idee, è parte integrante dell’etica
politica come ricordava Bonhoeffer. Il problema non è cercare di
salvare la faccia, ma portare un po’ più di giustizia nel mondo.
E per questo servono anche le maggioranze oltre alle minoranze
profetiche. La legge sull’obiezione di coscienza è stata fatta
dopo che i primi obiettori – minoranza profetica – sono finiti
in galera. Poi però è stato necessario creare una maggioranza
parlamentare. Se la sinistra tornasse a pensare dialetticamente, non
sarebbe male. Serve un’idea di società è chiaro. Vogliamo
riconoscere però con molta onestà intellettuale che viviamo in
un’epoca di grande povertà sul piano delle idee? Non mi pare che
i filosofi, i teologi, i sociologi riescano a produrre in questa
fase idee di società capaci di produrre correnti nella storia.
Producono straordinarie analisi, denunciano spaventose ingiustizie,
additano alcuni valori irrinunciabili. Ma idee di società nel senso
organico dell’’800 e del ‘900 non ne abbiamo a disposizione.
Ferve però nelle viscere della storia il lavorio del pensiero
prodotto dalla sofferenza del presente e dalla speranza del futuro e
sta tornando una stagione di “idee ricostruttive”. L’idea di
democrazia – la più bella idea politica – è una di queste.
Lavoriamoci attorno a partire dai grandi capisaldi delle rivoluzioni
americana e francese, della grande stagione costituente italiana e
tedesca nel secondo dopoguerra con il nostro bell’articolo 3.
L’idea di società che vogliamo sta dentro queste radici.
Lei è un esponente importante del
cattolicesimo democratico italiano. Studioso di filosofia della
politica, viene dalla Fuci, ed è stato uno dei padri fondatori
della Rosa Bianca. La sua storia parla chiaro. Quanto di questa
storia è presente nell’operato di Renzi?
Il mio battesimo politico –
esistenziale e ideale – è avvenuto con la morte di John Kennedy.
Siamo cresciuti non solo con i grandi maestri del cristianesimo
democratico europeo, italiano, tedesco e francese, ma anche con lo
sguardo oltre l’Atlantico. Per lo stesso Maritain la meditazione
sugli Stati Uniti è stato un passaggio decisivo così come per
Rosmini e Tocqueville nell’’800. L’essere kennediani era un
modo d’essere cattolici, progressisti e democratici libero dai
conflitti ideologici e religiosi europei. A modo suo Renzi mi pare
volersi ispirare a questa tradizione che diversamente da quella
europea non ha l’angoscia di fronte al moderno. Il compito però è
combinare questa tradizione con la grande tradizione
politico-istituzionale dei cattolici democratici, con la lezione dei
grandi giuristi e dunque con quella delicatezza nei confronti delle
istituzioni, con quell’amore per il pluralismo giuridico e
sociale, con quel forte senso dello Stato – sopra gli interessi di
parte – che è tipico della tradizione europea. E poi con l’ansia
lapiriana per la “povera gente”. Ognuno di noi e anche il
premier deve essere stimolato sempre a ritornare alle proprie
origini. Sapendo poi che ognuno di noi riesce a esprimere solo un
pezzetto di questa e di altre grandi correnti ideali e per questo
serve una buona orchestra.
Ultima domanda: Lei per ragioni
istituzionali, è Presidente della Delegazione italiana presso
l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, gira spesso
l’Europa. Come è visto il PD dalla “famiglia progressista “
europea?
Dopo il risultato alle Europee, a
Strasburgo hanno definito il PD “a shining light in Europe”.
Quel risultato aveva salvato non solo il PD, ma anche i progressisti
europei e tutti gli europeisti che, come è noto, non godono di
buonissima salute. Il PD è guardato con rispetto e con curiosità.
Rispetto per la sue dimensioni e le sue iniziative politiche sullo
sviluppo contro il rigorismo e sulla necessità di politiche comuni
sull’immigrazione. Stiamo segnando dei punti importanti e non
dobbiamo mollare la presa. Secondo me dovremmo spiegare meglio la
nostra scommessa “democratica” rispetto alle tradizioni
socialiste: per tutti i nostri partner potrebbe essere una strada
importante. E poi dobbiamo essere un partito ossessivamente
europeista: più Europa politica, più difesa comune con un esercito
europeo, più università e ricerca in comune, più asilo e
assistenza umanitaria solidale, eccetera. Questa è oggi la sfida
della sinistra: dare sostanza democratica e sociale all’Europa,
nostra vera casa comune. Non certo il ripiegamento sulla dimensione
nazionale.
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