Pochi avranno seguito la discussione di Firenze tra i candidati
alla presidenza della commissione Ue. Perché è una svolta epocale nella
storia europea, ma sono ancora forti i vizi dell'epoca consociativa.
Sarà stata probabilmente la trasmissione politico-elettorale
meno seguita dagli italiani in questa campagna, nonostante l’impegno
profuso dalla ottima Rai News 24. Un po’ per la piattaforma tv
solo digitale, un po’ per l’assenza di protagonisti italiani. Ma molto
perché il dibattito di ieri tra i candidati alla presidenza della
commissione di Bruxelles ha confermato i difetti che fanno l’Europa così
poco appassionante agli occhi degli europei.
L’evento – non l’unico, di analoghi ce ne saranno altri fino al 25
maggio – rappresenta in sé una novità epocale: se c’è una speranza che i
cittadini percepiscano finalmente un autentico conflitto nella politica
europea, invece del remoto e incomprensibile pasticcio consociativo,
gran parte di questa speranza è affidata alla spettacolarizzazione del
conflitto medesimo intrinseca nel format televisivo.
Dopo di che siamo appena ai primi passi di questo percorso, sperando che sia irreversibile.
Portato su scala continentale, lo scontro sulle scelte relative alle
emergenze quotidiane diventa implacabilmente generico, ideologico senza
essere effettivamente divisivo, remoto. Ascoltando Schulz, Juncker,
Verhofstadt e Bové si gira intorno al 3 per cento e ai vincoli di
bilancio intuendo appena le differenze tra la flessibilità del Pse e la
rigidità di Ppe e liberali. E sospettando (giustamente, temo) che
passate le elezioni e tagliate le ali politiche, i partiti europei non
marcheranno poi grandi distanze fra loro nella gestione della crisi.
Perfino sull’accoglienza degli immigrati le differenze alla fine sono di
tono, più che di sostanza.
Oltre tutto i quattro di ieri, compreso Bové, davano l’impressione di
una consuetudine reciproca che travalica la correttezza, sconfinando in
una familiarità da palazzo perfino più accentuata di quella della
politica nazionale.
Riportato in Italia, il dibattito conferma l’abisso che ormai separa
il Ppe di Juncker dal partito che teoricamente dovrebbe rappresentarlo
di più, cioè Forza Italia. E conferma i nuovi equilibri nel Pse, che
spingono Schulz a cercare e a citare appena possibile Matteo Renzi: non
solo in quanto segretario del partito probabilmente a questo punto più
forte della famiglia socialista e democratica, ma anche come leader di
governo vincente (circostanza ora rarissima in Europa), tra i pochi in
grado di trasmettere agli elettori un’idea dinamica dell’europeismo
progressista.
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