sabato 10 maggio 2014

Eurodibattito in tv, grande novità e vecchi difetti

Stefano Menichini 
Europa  


Pochi avranno seguito la discussione di Firenze tra i candidati alla presidenza della commissione Ue. Perché è una svolta epocale nella storia europea, ma sono ancora forti i vizi dell'epoca consociativa.
Sarà stata probabilmente la trasmissione politico-elettorale meno seguita dagli italiani in questa campagna, nonostante l’impegno profuso dalla ottima Rai News 24. Un po’ per la piattaforma tv solo digitale, un po’ per l’assenza di protagonisti italiani. Ma molto perché il dibattito di ieri tra i candidati alla presidenza della commissione di Bruxelles ha confermato i difetti che fanno l’Europa così poco appassionante agli occhi degli europei.
L’evento – non l’unico, di analoghi ce ne saranno altri fino al 25 maggio – rappresenta in sé una novità epocale: se c’è una speranza che i cittadini percepiscano finalmente un autentico conflitto nella politica europea, invece del remoto e incomprensibile pasticcio consociativo, gran parte di questa speranza è affidata alla spettacolarizzazione del conflitto medesimo intrinseca nel format televisivo.
Dopo di che siamo appena ai primi passi di questo percorso, sperando che sia irreversibile.
Portato su scala continentale, lo scontro sulle scelte relative alle emergenze quotidiane diventa implacabilmente generico, ideologico senza essere effettivamente divisivo, remoto. Ascoltando Schulz, Juncker, Verhofstadt e Bové si gira intorno al 3 per cento e ai vincoli di bilancio intuendo appena le differenze tra la flessibilità del Pse e la rigidità di Ppe e liberali. E sospettando (giustamente, temo) che passate le elezioni e tagliate le ali politiche, i partiti europei non marcheranno poi grandi distanze fra loro nella gestione della crisi. Perfino sull’accoglienza degli immigrati le differenze alla fine sono di tono, più che di sostanza.
Oltre tutto i quattro di ieri, compreso Bové, davano l’impressione di una consuetudine reciproca che travalica la correttezza, sconfinando in una familiarità da palazzo perfino più accentuata di quella della politica nazionale.
Riportato in Italia, il dibattito conferma l’abisso che ormai separa il Ppe di Juncker dal partito che teoricamente dovrebbe rappresentarlo di più, cioè Forza Italia. E conferma i nuovi equilibri nel Pse, che spingono Schulz a cercare e a citare appena possibile Matteo Renzi: non solo in quanto segretario del partito probabilmente a questo punto più forte della famiglia socialista e democratica, ma anche come leader di governo vincente (circostanza ora rarissima in Europa), tra i pochi in grado di trasmettere agli elettori un’idea dinamica dell’europeismo progressista.

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