Corriere della Sera 11/01/15
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All’Islam non servono ritrattazioni,
dissociazioni, condanne. E diciamo la verità: chiedere ai suoi
esponenti qualcuna di queste cose ha sempre un sapore sgradevolmente
intimidatorio, specie se, come accade spesso, chi avanza simili
richieste non sta a Bagdad o a al Cairo
ma vive ben rimpannucciato
in qualche metropoli europea o americana. Oggi all’Islam serve
altro: serve una Rossana Rossanda islamica (e spero che in questo
caso l’evocazione
di una donna non scandalizzi nessuno).
Qualcuno
ricorda? Era il lontano 28 marzo 1978, in pieno sequestro
Moro. Tutto lo schieramento politico «democratico e di sinistra»,
come allora si diceva (cioè dalla Dc al Pci), s’interrogava
sull’accaduto.
S i chiedeva quale misterioso progetto
ideologico e quali reconditi burattinai stessero dietro le
elucubrazioni delle Brigate rosse. In tutto questo, Rossana Rossanda
— un’antica esponente comunista poi espulsa dal partito perché
tra gli iniziatori dell’esperienza politica e giornalistica del
Manifesto — ebbe il coraggio di dire ciò che era sotto gli occhi
di tutti ma che fino ad allora nessuno a sinistra aveva osato quasi
neppure pensare. E cioè che per capire il linguaggio e l’ideologia
delle Br non c’era da andare molto lontano: l’una e l’altra
erano infatti quelli del comunismo degli Anni 50, ben scolpiti nella
memoria di tutti. Le Br, insomma, non venivano dal nulla, non erano
delle schegge impazzite chissà come di chissà che cosa. Erano
all’opposto, una pagina dell’«album di famiglia» della Sinistra
italiana: una pagina obsoleta quanto si vuole, fuori tempo, ferma ad
analisi ormai superate, insostenibili quanto si vuole, ma che un
tempo erano state condivise da moltissimi perché facevano parte di
un patrimonio comune a moltissimi. Anche se questi ora preferivano
dimenticarlo. L’articolo della Rossanda s’intitolava appunto
«L’album di famiglia». E naturalmente fece non poco
scandalo.
Oggi l’Islam ha forse bisogno di uno scandalo
analogo. Di qualcuno nelle sue file che abbia la lucidità
intellettuale e il coraggio di dire che se nel mondo si aggirano
degli assassini — non uno, non dieci, ma migliaia e migliaia di
assassini feroci — i quali sgozzano, violentano donne, brutalizzano
bambini, predicano la guerra santa, e fanno questo sempre invocando
Allah e il suo Profeta, sempre annunciando di compiere le loro gesta
in nome e per la maggior gloria dell’Islam, ebbene se ciò accade
non può essere una pura casualità. Non può essere attribuito a una
sorta di follia collettiva. Il mondo non è pazzo: qualche ragione
deve esserci. Deve esserci qualche legame — distorto, frainteso
grossolanamente, erroneamente interpretato quanto si vuole — ma un
legame effettivo con qualcosa che riguarda l’Islam reale.
Che
cosa? Non mi azzardo a dirlo. Non solo per paura delle conseguenze
(esiste anche questa: e come potrebbe non esserci?), ma soprattutto
perché chi scrive, così come del resto molti altri occidentali,
siamo consapevoli di avere a che fare con un mondo che non è il
nostro e che alla fine conosciamo ben poco. E che in questo mondo,
perciò, ogni nostra affermazione, ogni nostra inevitabile
semplificazione può offendere sensibilità, creare equivoci,
suscitare sdegni pure legittimi.
Ma soprattutto perché un
discorso sull’«album di famiglia», come si capisce, non può che
venire dall’interno della famiglia stessa. In questo caso
dall’interno dell’Islam, dalla sua intelligenza del momento
storico e dei pericoli che si stanno addensando per tutti. Solo così
conta qualcosa e può produrre qualche effetto.
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