Corriere della Sera 03/01/15
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In meno di un anno, il Jobs act è
passato dal libro dei desideri alla Gazzetta Ufficiale. Lo scarno
sommario di punti «formulato insieme ai ragazzi della segreteria» (
eNews di Matteo Renzi, 8 gennaio 2014) ha dato luogo ad un’ampia
riforma, approvata con la legge delega dello scorso 10 dicembre. Il
cammino è stato difficile e turbolento: aver tagliato il traguardo è
un indubbio segnale positivo. Verso l’Europa, i mercati finanziari
e gli investitori stranieri. Ma soprattutto verso l’interno. Il
nostro mercato del lavoro può ora diventare più efficiente e più
equo.
Come tutti i grandi cambiamenti, il Jobs act ha suscitato
incertezza e qualche timore nell’opinione pubblica e dure critiche
da parte sindacale. È perciò utile richiamare alcuni elementi di
fatto di questa riforma e interrogarsi sui suoi probabili
effetti.
Iniziamo col ripetere che per chi oggi ha un posto a
tempo indeterminato non cambierà nulla. Il cosiddetto contratto a
tutele crescenti (uno dei piatti forti della riforma) si applicherà
solo ai nuovi rapporti di lavoro e offrirà a moltissimi precari,
soprattutto giovani, la possibilità di assunzione in forma stabile.
Non un posto fisso garantito, a prova di licenziamento. Ma un impiego
senza scadenza pre-fissata, questo sì.
Rispetto alla situazione
attuale, sarà un grande miglioramento. Con una prospettiva temporale
lunga i giovani possono impostare piani di carriera e di vita che non
sono neppure immaginabili quando si è costretti a ragionare di mese
in mese.
La revisione degli ammortizzatori sociali (altro
pilastro fondamentale della riforma) offrirà dal canto suo quella
protezione universale contro la disoccupazione che l’Italia non ha
mai avuto. È davvero strano che le dispute sul Jobs act in seno al
Pd e ai sindacati abbiano trascurato questo aspetto, che dagli inizi
del Novecento è stato al centro dei programmi e delle lotte
politiche di tutte le sinistre europee. La Naspi (Nuova prestazione
di assicurazione sociale per l’impiego) corrisponderà a chi perde
il lavoro una indennità pari a circa il 75 per cento dello stipendio
per un massimo di 24 mesi. Verranno inoltre sperimentati due sussidi
aggiuntivi: l’assegno di disoccupazione (Asdi) per quei lavoratori
con carichi di famiglia e senza altre fonti di reddito che non sono
ancora riusciti a ricollocarsi alla scadenza della Naspi; e un
assegno (chiamato Dis-Coll) per i collaboratori a progetto che
restano senza lavoro.
Quando saranno a regime, gli
ammortizzatori sociali italiani diventeranno i più inclusivi e per
molti aspetti i più avanzati d’Europa. Certo, serviranno risorse
adeguate. Ma nel bilancio pubblico i margini ci sono, soprattutto se
si riuscirà a riportare la Cassa integrazione alle sue funzioni
«fisiologiche».
Per una valutazione completa del Jobs act
bisogna ovviamente aspettare i decreti delegati mancanti. Occorre
varare un codice semplificato del lavoro, che sfrondi l’attuale
pletora di forme contrattuali (in particolare le «co-co-pro»
fasulle). E serve al più presto un’Agenzia nazionale che coordini
i servizi per l’impiego e la formazione professionale.
Ma
veniamo ai possibili effetti del Jobs act. Crescerà l’occupazione?
Questo è ciò che importa agli italiani. Il ministro dell’Economia
Pier Carlo Padoan ha azzardato una stima: 800 mila posti di lavoro in
tre anni. Se così accadesse, sarebbe un bel successo. Tutto
dipenderà però dal comportamento delle imprese e, più in generale,
dall’andamento dell’economia.
Superato l’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, le piccole aziende salteranno il fatidico
«fossato» dei 15 dipendenti e ne assumeranno altri utilizzando il
contratto a tutele crescenti? Con maggiore flessibilità e forti
incentivi fiscali, le imprese medie e grandi smetteranno di
delocalizzare e torneranno a creare posti di lavoro stabili in
Italia? Arriveranno gli investitori stranieri? E, soprattutto,
ripartiranno gli ordini e i consumi? Le risposte a queste cruciali
domande non dipendono solo dall’azione di governo: si tratta in
ultima analisi di scelte e comportamenti dei vari soggetti economici.
Il Jobs act va perciò visto come una condizione necessaria, ma non
sufficiente per superare la crisi e far crescere il lavoro.
Agli
inizi di un nuovo anno, è giusto mostrare un po’ di ottimismo.
Grazie al Jobs act, possiamo dire che il bicchiere delle riforme ha
cominciato a riempirsi. Non aspettiamoci miracoli; piuttosto, come ha
giustamente detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano,
«ciascuno faccia la sua parte al meglio». Se la legge delega verrà
attuata in tutti i suoi tasselli, è lecito però sperare che nel
2015 l’assillo della disoccupazione allenti la sua morsa,
soprattutto sui giovani e le fasce più fragili della nostra società.
Con l’aria che tira, sarebbe una realizzazione non da poco.
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