Corriere della Sera 14/01/15
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Visiti un carcere e misuri il grado di
civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l’Italia,
«a parole», ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi
infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2.
Quando la situazione si fa calda, si rimedia velocemente con indulti
e decreti svuotacarceri. Il risultato è che il 70% dei condannati,
una volta scontata la pena, torna a delinquere. Se la funzione del
carcere è quella di restituire alla società un individuo
riabilitato, è evidente che qualcosa non va. Eppure, già nel 1975,
siamo stati fra i primi a introdurre le misure alternative al carcere
con l’affidamento in prova al servizio sociale. Oggi gli affidati
sono circa 12.000, ma è difficile sapere se chi ha evitato il
carcere poi mantenga un comportamento corretto (non spacciare droga,
fare il lavoro che gli è stato assegnato...). Questo perché
l’assistente sociale, che dovrebbe incontrare l’affidato una
volta alla settimana, sia a casa che al lavoro, lo vede se va bene
una volta ogni due mesi. Del resto, a Padova sono in otto a seguire
più di 1.000 casi; a Roma in 36 con 3.000 casi.
Gli esempi
all’estero
In tutta Europa e negli Stati Uniti, attorno alle
misure alternative sono stati organizzati progetti controllati e
coordinati. Per esempio a Portland (Usa), i detenuti tengono in vita
uno dei parchi urbani più prestigiosi al mondo, quello delle rose,
con 600.000 visitatori l’anno. I dati Usa dicono che chi passa da
questa «misura» torna a delinquere nel 10% dei casi, rispetto al
25% di chi va in carcere. Poi c’è l’aspetto economico: un
detenuto in cella costa 170 dollari al giorno, ai servizi sociali ne
costa 1,43.
In Olanda ormai le pene alternative hanno superato
quelle detentive, sono in media 40.000 l’anno: i detenuti vengono
mandati a lavorare negli ospedali e nei centri anziani.
Ovunque
però il grosso della partita si gioca dentro alle carceri. La nostra
legge prevede di occupare i detenuti non pericolosi con i lavori di
pubblica utilità su base volontaria a titolo gratuito, ma buona
parte dei sindaci nemmeno sa che può farne richiesta per ridipingere
i muri dai graffiti o pulire gli argini dei fiumi. È previsto anche
l’obbligo per l’amministrazione carceraria di dare un’occupazione
al condannato in via definitiva, poiché il lavoro è lo strumento
principale per il reinserimento nella società.
Questione di
soldi
Il problema è che il detenuto se lavora, per legge, va
pagato. Giusto. Solo che i soldi per pagare i 54.000 detenuti non ci
sono. Quindi alla fine lavorano in pochi, e a rotazione, e solo l’1%
si occupa di manutenzione ordinaria. Intanto 4.000 posti nelle
carceri sono diventati inagibili e sono in corso appalti per decine
di milioni di euro. Se fossero i carcerati a intonacare o riparare i
rubinetti, invece di spendere 500 milioni di euro per il piano
carceri, spenderemmo meno e lavorerebbero tutti. È sempre una
questione di soldi: il sistema penitenziario costa complessivamente 2
miliardi e 800 milioni euro l’anno, che vuol dire circa 4.000 euro
al mese a detenuto. Si può uscire da questa spirale di inefficienza
colpevole guardando anche come fanno gli altri?
Nelle carceri
irlandesi praticamente tutti i detenuti fanno qualcosa. Quelli che
lavorano a tempo pieno in cucina, in lavanderia e nella manutenzione
arrivano a 18 euro la settimana e hanno diritto alla cella singola
con doccia e a volte anche col computer. Si chiamano superior deluxe
rooms. Ce ne sono 140.
Do ut des
In Austria per ogni ora di
lavoro riconoscono dai 7 ai 10 euro, ma il 75% rimane
all’amministrazione per le spese di mantenimento. In carcere il
detenuto impara a fare il falegname o il panettiere, e spesso succede
che, quando ha finito di scontare la pena, viene assunto. Nel carcere
americano di Portland citato prima lavora il 60% dei detenuti. Lo
stipendio viene calcolato, ma l’amministrazione se lo tiene a
compensazione del costi di mantenimento e dà al detenuto circa 50
dollari al mese per le piccole spese. Non è obbligatorio lavorare,
ma se lo fai, anche qui c’è uno sconto di pena e dei benefit. Noi,
al contrario, tratteniamo dallo stipendio 50 euro per le spese di
mantenimento. Così a lavorare sono in pochi, perché i soldi non ci
sono. E quei pochi lavorano pure in condizione di disparità. Chi si
occupa della mensa per conto dell’amministrazione penitenziaria per
esempio prende uno stipendio di 400 euro al mese, se invece lavora
per le cooperative prende fino a 1.200 euro.
La fortuna delle
coop
Proprio domani scade la convenzione con un decina di
cooperative che gestiscono le mense dentro le carceri. Era una
sperimentazione, sicuramente conveniente per le coop: la cucina e le
derrate le compra il ministero, mentre la coop deve provvedere a
pagare lo stipendio a quei 6 o 7 che preparano i pasti. Come vengono
scelti quei pochi «fortunati»?. Chi lo sa. Certo è che alle
cooperative abbiamo delegato molto in cambio di sgravi fiscali: 16
milioni di euro solo l’anno scorso. Molte fanno attività
nobilissime, ma se parliamo di «lavoro», a parte l’eccellenza di
Bollate (che impegna circa il 50% dei detenuti ), è quasi il nulla.
Al femminile di Rebibbia lavorano in 10, a Regina Coeli invece c’è
solo una lavanderia dove lavorano in 2; tra i fondatori della coop
l’ex brigatista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. A
Secondigliano su 1.300 detenuti solo una ventina lavorano, fra cui
alcuni ergastolani con storie da 41 bis o condannati per mafia,
omicidi, traffico di droga. Loro coltivano zucchine pagati dalla
cooperativa di turno, mentre gli altri, quelli che scontano pene meno
gravi e certamente usciranno, guardano il soffitto.
L’alternativa
è continuare a difendere il principio che il lavoro va remunerato e
se non ci sono risorse, pazienza… oppure cambiare strada,
organizzarsi in modo da rendere le carceri autosufficienti, far
lavorare tutti quelli che lo vogliono, insegnare loro un mestiere,
calcolare lo stipendio, ma trattenere le spese di mantenimento,
lasciando al detenuto quel che gli serve per le piccole esigenze,
concedergli sconti di pena, permessi, celle decenti. È una proposta
che evoca il «lavoro forzato» o è una soluzione pragmatica e
civile?
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