Corriere della Sera 11/01/15
corriere.it
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK
Al di la della condanna per la strage
di Parigi e la solidarietà ai disegnatori di Charlie Hebdo , la
discussione sull’opportunità di pubblicare le vignette satiriche
blasfeme che hanno offeso i musulmani ha diviso molti giornali. Anche
alcune delle più prestigiose testate internazionali, dal Financial
Times al New York Times . Confronti anche aspri, a volte con
sfumature colorite come è avvenuto a New York dove il direttore del
Times , Dean Baquet, ha risposto con insulti a un collaboratore che
contestava con toni sgarbati la decisione di non pubblicare quei
disegni.
Ma nulla eguaglia lo scambio di email infuocate che sta
spaccando la redazione dell’edizione inglese di Al Jazeera ,
sollecitata a giudicare con severità il lavoro dei disegnatori
assassinati e a criticare la campagna di solidarietà «Je suis
Charlie»: dopo una serie di botta e risposta la discussione l’ha
chiusa Omar Al Saleh, corrispondente dallo Yemen, che a Jackie
Rowland, una giornalista di formazione Bbc che ora lavora per Al
Jazeera da Parigi e ricordava ai suoi colleghi che il lavoro dei
giornalisti (compresi quelli satirici) non può mai essere
considerato un crimine, ha risposto seccamente: «Il giornalismo non
è un crimine, ma l’insultismo non è giornalismo. E non fare
giornalismo in modo corretto è un crimine».
Parole
pesantissime destinate a rendere problematica la permanenza sotto lo
stesso tetto di giornalisti con valori e retroterra culturali così
diversi. Un esperimento avviato qualche anno fa quando la rete
internazionale della tv del Qatar, accusata di diffondere sentimenti
antioccidentali, cercò di cambiare rotta assumendo, per il canale in
lingua inglese, giornalisti europei e americani.
Lo scontro in
redazione è venuto alla luce quando la National Review Online , il
sito della rivista conservatrice americana, ha pubblicato le email.
Tutto è iniziato con una direttiva del produttore esecutivo
Salah-Aldeen Khadr che invitava anchormen e corrispondenti, nei
servizi sulla strage di Parigi, a mettere in dubbio che l’attentato,
comunque da condannare, possa essere considerato un attacco alla
libertà di opinione e a bollare «Je suis Charlie» come slogan
alienante. Non una necessaria manifestazione di solidarietà ma
l’espressione di un ragionamento sbagliato: o sei con me o contro
di me.
Khadr presenta i suoi come suggerimenti, ma è perentorio
e dettagliato: in primo luogo «bisogna chiedersi se c’è davvero
un attacco al popolo e alla cultura francese o se è stato preso di
mira un bersaglio limitato reo di aver offeso un miliardo e mezzo di
persone». L’omicidio va sempre condannato, aggiunge il produttore
di Al Jazeera , ma una cosa è «difendere la libertà d’espressione
davanti a un regime, insistere sul diritto di offendere è
infantile». E ancora: «I vignettisti sapevano che si esponevano a
rischi per difendere principi che quasi nessuno contestava». Se non
siamo al «se la sono cercata», poco ci manca. Gli ha risposto il
corrispondente americano Tom Ackerman sostenendo la necessità di
pubblicare le vignette per non dare ai killer l’idea di averla
spuntata. Replica dei colleghi arabi: se insulti un miliardo e mezzo
di persone in ciò che hanno di più sacro devi sapere che qualche
pazzo ci può essere.
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