Corriere della Sera 14/01/15
M. Ainis
Ogni presidente della Repubblica scrive
la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive
i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione
politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene
influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a
mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il
nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza
in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle,
al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era
entrato.
I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso
più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal
1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o
quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca
sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un
rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un
mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva
criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel
1992 — quando giurò da capo dello Stato — promise di
ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il
self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie
funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri
presidenti. Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo
dell’esecutivo Monti.
Scalfaro nominò sei presidenti del
Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto
l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni
anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del
1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una
maggioranza in sostegno del governo.
Potremmo continuare ancora
a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di
Pertini, eletto nel 1978 — durante i nostri anni di piombo — per
garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate
dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica
opinione.
Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962
esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore
Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per
otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature
precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette.
Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel
bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al
Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del
«piano Solo».
Quale lezione possiamo allora trarre da questi
remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due
puntate.
Primo: contano gli accidents of personality , come
dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché
al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa
in solitudine. E quel potere — scriveva nel 1960 il
costituzionalista Carlo Esposito — non viene affidato alla Dea
Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le
sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può
acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo
sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.
Secondo: contano
altresì gli accidents of history , se così possiamo dire. Conta la
storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la
ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A
differenza di Ciampi — che visse gli anni più stabili della
Seconda Repubblica — l’uno e l’altro si sono trovati a navigare
il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente,
Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza
ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i
casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il
presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di
sistema.
Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa.
Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle
circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché
nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà,
esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto
della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e
infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione
di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua
bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo
l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se
talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era
quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella
offerta da Napolitano.
In conclusione, non c’è una
conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno
un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita:
sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle
accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo
luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro
mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora
emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo
dello Stato, non un capo degli statali.
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