Corriere della Sera 11/01/15
Stefano Montefiori
«Charlie ha sette vite come i gatti,
siamo colpiti ma non affondati», dice ora con una vignetta Corinne
Rey in arte Coco, disegnatrice che piange la fine della sua famiglia,
e non nasconde il rammarico che ci sia voluta una strage simile per
avere l’appoggio di tutti. Le campane di Notre Dame che suonano per
uno dei giornali più anti-clericali della storia sono il segno
definitivo che la Francia intera, adesso, è con loro.
L’assalto
a Charlie
Mercoledì mattina è stata Coco, sotto la minaccia dei
fucili d’assalto di Chérif e Saïd Kouachi, a comporre il codice
della porta della redazione che ha aperto ai terroristi islamici la
via per il massacro. Uno dei due fa l’appello, chiama «Charb?», e
al cenno del direttore del giornale spara una raffica e lo uccide. I
terroristi hanno la lista degli obiettivi, elencano i nomi degli
infedeli che a loro avviso hanno offeso il profeta e fanno fuoco. La
psicologa Elsa Cayat viene uccisa nel mucchio, unica donna. Coco
viene risparmiata, così come Ségolène Vinson, alla quale mettono
la canna del fucile alla tempia e dicono «non ti uccidiamo, perché
non uccidiamo le donne. Però d’ora in poi leggi il Corano»
.
Sono le 11 e 30 di mercoledì, in pochi minuti l’operazione
è finita. La scientifica ritroverà 31 bossoli di calibro 7,62
dentro il palazzo di rue Nicolas Appert. I morti qui sono 11: i
giornalisti della rivista Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Philippe
Honoré, Bernard Maris, il correttore Mustapha Ourrad, Elsa Cayat,
l’agente di scorta di Charb, Franck Brinsolaro, l’ospite Michel
Renaud, e l’inserviente al piano terra, Frédéric Boisseau. I due
terroristi tornano in strada ma vedono avvicinarsi in bicicletta il
poliziotto in divisa Ahmed Merabet. Appena sposato, una figlia di un
anno. Gli sparano addosso decine di colpi e si avvicinano correndo
con calma per finirlo. Tra tante scene insostenibili di questi
giorni, è l’immagine forse più spaventosa.
Ieri la sua
famiglia ha convocato una conferenza stampa a Livy-Gargan, nella
periferia difficile a Nord di Parigi dove Ahmed abitava. Comincia a
parlare il fratello, Malek, con tono composto e deciso: «Buongiorno
a tutti. Francese, di origine algerina e di confessione musulmana,
fiero di chiamarsi Ahmed Merabet, di rappresentare la polizia
francese e di difendere i valori della Repubblica, liberté, égalité,
fraternité, con determinazione Ahmed ha ottenuto il diploma di
ufficiale di polizia giudiziaria, e presto avrebbe lasciato il lavoro
in strada. Ahmed...» qui Malek si piega, comincia a piangere. Fa
male guardarlo. L’altro fratello gli tocca il braccio per aiutarlo
a riprendersi, davanti alle telecamere. «Ahmed — riprende Malek —
si era preso l’impegno di vegliare su sua mamma e i suoi, dopo la
morte del padre, vent’anni fa. Era il pilastro della nostra
famiglia. Mi rivolgo adesso a tutti i razzisti, islamofobi e
antisemiti. Dico loro che non bisogna confondere gli estremisti e i
musulmani. Mio fratello era musulmano, si è fatto uccidere da falsi
musulmani». Contro di lui i terroristi islamici hanno sparato 25
colpi. I fratelli Kouachi scappano sulla loro Citroën C3 nera e
riusciranno, per tutta la giornata di mercoledì e la notte
successiva, a fare perdere le loro tracce. A lungo la polizia è
convinta che con loro ci sia un terzo uomo, che li avrebbe aspettati
alla guida dell’auto: sembra essere Mourad Hamyd, 18 anni, cognato
di Chérif. Nella notte il suo nome viene diffuso dai media, e i suoi
amici cominciano a protestare su Twitter: non può essere lui, ha
passato la mattina in classe, con loro. Lui si presenta in
commissariato per dimostrare la sua innocenza, viene messo in
custodia cautelare. Estraneo alla vicenda, liberato, è ancora sotto
choc .
Il secondo giorno
Mercoledì sera, una prima avvisaglia
dei nuovi orrori che accadranno nei due giorni successivi. Una donna
vede sul marciapiede qualcuno che scruta una cartina stradale a
Montrouge, nei pressi di una scuola ebraica. Rimane colpita, perché
qualcosa non la convince. Guarda con attenzione il viso di
quell’uomo. La mattina seguente, giovedì, prima delle 8 del
mattino, a pochi metri da lì un incidente stradale di poca
importanza interrompe l’azione di Amedy Coulibaly, il terzo
jihadista, amico dei fratelli Kouachi. La poliziotta municipale
Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, si avvicina all’auto, Coulibaly ne
esce in giubbotto antiproiettile, passamontagna, e fucile d’assalto.
Spara contro Clarissa, che morirà lì, per strada, nonostante il
massaggio cardiaco dei soccorritori, e spara anche contro un altro
agente, miracolato: l’unico colpo che lo raggiunge gli trapassa la
guancia, è sotto choc ma la ferita non è grave. Il terrorista
abbandona l’auto e riesce a fuggire a piedi, gli agenti chiedono
informazioni ai testimoni e agli abitanti del quartiere: la donna che
la sera precedente aveva notato il tipo sospetto con la cartina va a
raccontarlo alla polizia. Le fanno vedere una ventina di foto,
riconosce con certezza Amedy Coulibaly. L’ipotesi è che il vero
obiettivo del terrorista fosse la scuola ebraica, all’ora
dell’entrata dei bambini in classe. Come Mohamed Merah, a Tolosa,
due anni e mezzo fa.
La caccia all’uomo
Intorno alle 11
nuovo allarme: il gestore di un’area di servizio Avia, isolata
nella campagna a circa 80 chilometri di Parigi, riconosce i due
fratelli Kouachi come i rapinatori che fanno benzina e rubano cibo.
Sono a volto scoperto, e il benzinaio dice di aver visto dentro
l’auto — una Renault Clio grigia — fucili e quel che gli sembra
un lanciamissile. Scatta la gigantesca caccia all’uomo con decine
di migliaia di agenti, si sparge la voce che i terroristi si stiano
dirigendo verso Parigi per compiere altri attentati, e la polizia si
schiera ad aspettarli a ogni porta di ingresso della capitale. Ma i
fratelli Kouachi non arrivano. Allora le forze dell’ordine provano
ad andarli a prendere setacciando un’area di circa 20 chilometri
quadrati nella campagna a nord-est di Parigi, poco lontano dal luogo
dell’avvistamento alla pompa di benzina.
Il terzo giorno
La
caccia va avanti tutta la notte, ma dà i suoi frutti solo la mattina
di venerdì, quando i due terroristi vengono intercettati da un posto
di blocco. Nella sparatoria Saïd viene leggermente ferito al collo,
i due fratelli si barricano nella tipografia di Dammartin-en-Goële,
comincia l’assedio. Il titolare dell’azienda, Michel Catalano,
viene preso in ostaggio. È lui a mettere un cerotto sul collo di
Saïd. Alle 10 e 20, dopo circa un’ora, Catalano viene liberato.
Resta nascosto dentro Lilian Lepère, che manderà per ore sms ai
poliziotti.
Gli ostaggi di Parigi
Intorno alle 13 di venerdì,
a Parigi, Amedy Coulibaly entra di nuovo in azione e prende di mira
un supermercato ebraico del quartiere di Vincennes. Fa esplodere una
granata e spara con i due fucili, uccidendo probabilmente subito tre
persone. Poi, ecco la testimonianza (raccolta da Le Point ) di uno
dei clienti che diventano ostaggi, Mickael B., che era andato con il
figlio di tre anni a comprare pollo e pane per lo shabbat. Al momento
di pagare, sente un’esplosione e vede «un nero armato di due
kalashnikov». Prende il figlio per il collo e lo porta verso il
fondo del supermercato, assieme ad altri clienti prende la scala a
chiocciola e scende nel seminterrato, dove ci sono due cantine. «La
nostra non si chiudeva dall’interno. Eravamo terrorizzati». Ma il
terrorista ha visto Mickael. Per due volte fa scendere una dipendente
del supermercato per dirgli «se non risale con suo figlio, sarà un
massacro». Mickael fa come gli viene chiesto, risale le scale con il
figlio. Vede un uomo morto in un lago di sangue. Poi assiste a un
altro assassinio. Una delle armi di Coulibaly è appoggiata su un
tavolo, il terrorista l’aveva lasciata lì perché si era
inceppata. Un cliente la vede e si lancia per impadronirsene. Ci
riesce, «ma non funziona. Il terrorista si gira e fa fuoco, il
cliente muore sul colpo». Mickael B. è atterrito ma riesce comunque
a chiamare la polizia, ormai presente con centinaia di auto,
blindati, truppe d’assalto. Nello scantinato, intanto, Lassana
Bathily, 24 anni, immigrato del Mali, musulmano, riesce a salvare sei
ostaggi portandoli nella cella frigorifera. Spegne la luce e stacca
il congelatore, mettendoli al sicuro. Prende un montacarichi, riesce
a scappare dal supermercato e racconta ai poliziotti quel che sta
accadendo all’interno.
Intorno alle 17 di venerdì, a
Dammartin, i fratelli Kouachi escono correndo e sparando verso i
gendarmi del GIGN schierati e non possono che morire, finalmente, da
martiri (secondo loro) come avevano desiderato. A Parigi, nel
supermercato, il loro amico Coulibaly ha stipato una grande quantità
di esplosivo, forse progetta di fare saltare tutto. «Il terrorista
diceva che la morte sarebbe stata la sua ricompensa — racconta
ancora Mickael —. Teneva due armi in pugno, e caricatori e scatole
di pallottole a portata di mano. A un certo punto si è messo a
pregare. Il mio telefonino era acceso, i poliziotti lo hanno sentito.
Qualche istante dopo la saracinesca del supermercato si è alzata,
abbiamo capito che era l’inizio dell’assalto, ci siamo buttati a
terra. Il rumore era assordante. Lui era morto. Tutto finito». Il
blitz della polizia è riuscito, ma Parigi piange altri quattro
francesi morti. Si chiamano Yoav Hattab, Philippe Braham, Yohan
Cohen, François-Michel Saad. Ebrei, uccisi perché ebrei.
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