SEBASTIANO MESSINA
La Repubblica 30 gennaio 2015
La tela
di rapporti del candidato-presidente ruota nell’universo del
cattolicesimo democratico e nell’ambiente accademico di Palermo. Dagli ex popolari agli amici del San
Leone il mondo riservato del giudice costituzionale.
Se Sergio Mattarella fosse eletto, ai
suoi traslocatori basterebbe attraversare la strada, e portare al
Quirinale i mobili con cui ha arredato la sua foresteria alla Corte
Costituzionale. È lì che vive, ormai, da quando – dopo la morte
della moglie Marisa – ha lasciato la casa di via della Mercede e ha
scelto di fare una vita monacale, andando da casa al lavoro senza
neanche uscire in strada. Del resto, un viveur lui non lo è mai
stato. A cena, da sempre, va con gli amici di una vita. Come il
magistrato Pietro Sirena, presidente della IV sezione penale della
Cassazione. Come il ginecologo Michele Ermini, suo compagno di scuola
al San Leone Magno. O come l’ex presidente del Monte dei Paschi (ed
ex ministro del Tesoro) Piero Barucci, che conobbe quando suo
fratello Piersanti frequentava la Svimez di Pasquale Saraceno.
Qualche volta accetta gli inviti di
Giuliano Amato o di Sabino Cassese, suoi colleghi alla Corte
Costituzionale. Altre volte – più raramente - va a pranzo con i
vecchi compagni di partito che vengono a trovarlo, a cominciare da
Pierluigi Castagnetti (al quale viene attribuita la paternità
dell’idea di candidarlo al Colle), ma anche Rosy Bindi (che lo ha
sempre trattato come un fratello maggiore) e Rosa Russo Jervolino
(collega di governo ai tempi di Goria e compagna di battaglie nel Ppi
buttiglioniano).
Non ci sono più, da tempo, i vecchi
amici di una volta, come Benigno Zaccagnini che gli diede il primo
posto in lista, Leopoldo Elia con cui passava intere serate a
discutere di diritto costituzionale, Pietro Scoppola che condivideva
con lui la passione per la storia del popolarismo sturziano, o il
cardinale Achille Silvestrini con cui discettava di diritto canonico.
Poi c’è Palermo. Lui si è sempre
considerato un pendolare, metà siciliano e metà romano, visto che
ha vissuto in Sicilia fino alle elementari e c’è tornato solo dopo
l’università, come professore di diritto parlamentare alla facoltà
di Giurisprudenza, in quell’Istituto di diritto pubblico diretto da
Pietro Virga – intere generazioni di avvocati hanno studiato sui
suoi manuali – dove alla fine degli anni Settanta insegnavano anche
Leoluca Orlando, Vito Riggio e Sergio D’Antoni. Quel gruppo di
giovani giuristi – cui si aggiungevano Carlo Vizzini (diritto
finanziario), Giovanni Fiandaca (diritto penale) ed Enrico La Loggia
(contabilità dello Stato) – a capodanno si riuniva proprio nella
casa di Mattarella in via Libertà, dove puntualmente arrivavano il
fratello Piersanti e la moglie, che abitavano nel palazzo di fronte.
Altre volte l’appuntamento era a casa di Guido Corso, che sarebbe
diventato un maestro del diritto amministrativo e che ancora oggi è
uno degli amici più stretti di Mattarella. Che non sono tanti,
neanche a Palermo: i più vicini sono l’avvocato Francesco
Crescimanno, nel 2001 candidato sindaco del centrosinistra contro
Cammarata, e Salvatore Butera, già consigliere economico di
Piersanti.
Del giro della politica – sono anni
che Mattarella si tiene fuori, saggiamente, dalle contorte vicende
del partito in Sicilia – sono rimasti in pochi. Uno è Vito Riggio,
che negli anni Settanta lo convinse ad accettare la sua prima
candidatura: presidente dell’Opera universitaria. Una volta eletto,
si pentì prestissimo: «Un giorno – racconta Riggio – si ritrovò
assediato da una folla di studenti urlanti, uno di loro brandiva
minacciosamente un grosso mestolo, e Sergio era lì in mezzo,
serafico. E più quelli urlavano e più lui abbassava la voce. A un
certo punto disse al più scalmanato: “Scusi, ma perché urla?
Siamo qui per discutere, no?”. E quelli si calmarono di colpo».
Un altro con cui Mattarella ama
discutere di politica è il catanese Giovanni Burtone, deputato del
Pd e allievo di Rino Nicolosi, uno dei tre democristiani che nella
primavera del 1980 lo convinsero a fare politica raccogliendo
l’eredità del fratello appena assassinato dalla mafia. Poi, tre
anni dopo, De Mita gli affidò le redini del partito a Palermo,
sconvolgendo tutti gli equilibri delle correnti. «Quando arrivai in
Sicilia – ricorda oggi l’ex segretario – mi dissero che voleva
parlarmi padre Pintacuda, il gesuita che guidava il gruppo di Città
per l’Uomo. Venne la mattina presto in albergo e mi disse,
preoccupatissimo: “Adesso dovete proteggerlo, dopo averlo
nominato!”».
La politica, certo, è stata sempre
importante in casa Mattarella. Suo padre Bernardo, che si vantava di
essere stato il primo a entrare in contatto con don Luigi Sturzo,
esule in America, dopo lo sbarco degli Alleati, ospitava nella sua
casa i big della Dc. «Papà, chi è quel signore che cammina con il
rosario in mano come un prete, ma non ha il saio?» domandò una
volta la figlia maggiore, Marinella. «E’ un mio amico, si chiama
Giorgio La Pira» rispose il padre. A Roma, poi, i fratelli Piersanti
e Sergio – che avrebbero sposato due sorelle, Irma e Marisa
Chiazzese - giocavano con i figli di De Gasperi e con quelli di Moro,
e qualche volta il padre invitava a cena un monsignore che avrebbe
fatto strada: Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Ma la
famiglia, per Mattarella, forse viene prima della politica. Ha fatto
da padre ai figli di Piersanti (Bernardo e Maria) e trova sempre il
tempo per giocare con i sei nipotini che gli hanno dato i suoi tre
figli (Laura, Bernardo Giorgio e Francesco). E’ per loro che torna
sempre a Palermo, tutti i fine settimana, anche se appena arriva va
da Franco Alfonso, il mitico barbiere di via Catania: la sua chioma
bianca, Mattarella se la fa tagliare solo da lui.
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