Corriere della Sera 11/01/15
corriere.it
«Eccolo. Ci divertiamo...». L’ultimo
video che Amedy Coulibaly invia al suo confratello Chérif Kouachi
mostra alcuni maschi che brutalizzano due giovani ragazze, all’inizio
spaventate, poi soggiogate e infine complici, come prevede lo
stereotipo machista della pornografia.
Il dettaglio è
sgradevole, ma indicativo del ruolo che avevano le donne
nell’amicizia e nel fanatismo di due uomini che poi diventeranno
l’asse portante della strage di Parigi.
«Sono un
ghetto-musulmano» dice Chérif al giudice che lo interroga nel
luglio 2010. «Metà jihadista, metà piccolo delinquente». Il tono
è di derisione, ma le parole contengono qualche verità, e con il
sempre facile esercizio del senno di poi diventa invece difficile
capire come sia stato possibile che la sorveglianza, fisica e
telefonica, sui due fratelli Kouachi, autori del massacro a Charlie
Hebdo , sia stata del tutto abbandonata a partire dal luglio 2013 per
Chérif e dall’inverno seguente per Said, il maggiore. C’erano
altre priorità, è la risposta data ieri dal ministero dell'Interno,
che spiega come entrambi fossero ormai in apparenza rientrati nella
piccola criminalità, dediti a piccoli traffici di droga e al
contrabbando.
Da allora, solo un breve ritorno di attenzione nei
confronti di Said, nell’estate del 2014, subito declassato a
pratica da commissariato di quartiere.
Dopo, soltanto dopo che
le cose sono accadute, tutto appare sempre chiaro. L’inchiesta
sulla rete di reclutamento parigina per la Siria che nel maggio 2010
mette insieme per la prima volta i nomi di Coulibaly, detto Doly, a
quello dei fratelli Kouachi, legandoli ai pionieri del jihadismo
francese, apre anche una finestra su una mutazione in corso senza
seguirla fino in fondo, con nomi e località che poi diventeranno
ricorrenti in questi giorni drammatici.
Buttes Charmont è un
parco pubblico del XIX arrondissement con vista sulla basilica di
Montmartre, diventato sinonimo della banda che nel 2005 tentava di
esportare aspiranti jihadisti in Iraq, faccenda che segnò il debutto
al disonore delle cronache di Chérif, condannato a tre anni di
detenzione. Nel 2010 diventa anche il ritrovo delle passeggiate
serali del più piccolo dei fratelli Kouachi con la taciturna moglie
al seguito, accompagnati dal suo nuovo amico, conosciuto in carcere,
Amedy Coulibaly, e dalla sua compagna, Hayat Boumeddiene.
Gli
investigatori li sorvegliano mentre passeggiano e scherzano, rilevano
come i maschi non disdegnino qualche spinello, con le donne che
camminano sempre due passi indietro agli uomini.
Quando il
progetto siriano entra nella fase operativa, insieme al fantomatico
progetto di liberazione di Alì Belkacem, l’autore degli attentati
al metrò del 1995, i due «confrères» si preparano scegliendo
questa collina verde alle porte della banlieue come palestra di
ardimento, corsa di lunga durata ed esercizi fisici a corpo libero.
L’abbandono delle Citroën nera usata per la strage al Charlie
Hebdo davanti al parco chiude il cerchio su Buttes Charmont, come
luogo simbolo di una jihad domestica prima sognata e in seguito,
purtroppo, realizzata.
Gli arresti del maggio 2010 sembrano
cogliere i due amici nel mezzo di una transizione non priva di
contraddizioni. Chérif esce subito dall’inchiesta, per mancanza di
prove. A casa di Doly vengono invece trovate una calibro 38 e 240
cartucce di kalashnikov nascoste in fondo a un armadio. Alle pareti,
in bella evidenza, ci sono le bandiere nere dell’Islam
radicale.
Ma quella è anche la primavera in cui i due amici e
relative consorti trascorrono intere serate alla Foire du Trône, la
festa di ispirazione cattolica con musica e concerti che ricorda la
distribuzione del pan di spezie da parte dell’abbazia di
Sant’Antonio durante la settimana santa del 957. Si svolge ogni
anno da aprile a maggio. Nel parco di Vincennes, a pochi passi dalla
drogheria kosher dove Coulibaly ucciderà quattro ostaggi. Le
perquisizioni certificano anche il comune scambio di materiale
pornografico tra i futuri terroristi, che commentano i filmati con
espressioni volgari, come due bambinoni non cresciuti.
«Per me
c’è solo la religione, della famiglia non me ne importa nulla».
Coulibaly era un esperto di rapine a mano armata. Al contrario
dell’amico Chérif, che appare come un predestinato della jihad
domestica, all’eterna ricerca di qualche pessimo maestro dal quale
dipendere, il terzo uomo del massacro di questi giorni era nato nella
Grande Borne, uno dei più vasti esperimenti di edilizia popolare mai
realizzati in Europa.
Era il settimo di dieci figli, piccolo e
muscoloso, appassionato di body building, rinnegato dal padre dopo il
primo arresto, avvenuto all’età di 15 anni. Nel carcere di
Fleury-Mérogis avviene l’incontro che gli cambia la vita. La cella
accanto alla sua è abitata da Djamel Beghal, teorico della jihad che
intanto ha già convertito Chérif.
I due amici condivideranno
solo sette mesi di pena, da settembre 2008 ad aprile 2009, ma il loro
legame non si scioglierà mai. A tenerlo stretto ci sarà sempre
Beghal, che una volta al confino nella campagna dello Chantal,
sottopone gli adepti a prove teoriche e pratiche. È lui che ordina
ai due amici di ripulirsi dalle scorie dell’odiato stile di vita
occidentale e impone alle loro mogli il viaggio alla Mecca in
solitaria e il passaggio al velo integrale.
Alla vigilia della
strage al Charlie Hebdo sei membri del gruppo di Beghal erano in
libertà. Nelle carte dell’inchiesta c’è una intercettazione del
12 marzo 2010 in cui il «maestro», oggi disperso in Siria, risponde
con calma a domande che vertono sulla religione. «Per essere davvero
religiosi, occorre odiare i miscredenti».
All’altro capo del
telefono gli rendono gli omaggi tre uomini entusiasti e rispettosi
del maestro. Sono Coulibaly, Chérif e Said Kouachi. «Se volete che
vi elenco tutti i terroristi che conosco: quelli della filiera
cecena, della filiera afgana. Ma questo non fa di me un terrorista.
Sciiti e sunniti? Non perdo tempo con queste storie».
Con i
magistrati Coulibaly faceva lo sbruffone. E nel suo esibizionismo
infilava frasi che a rileggerle adesso assumono un significato amaro.
«Gli attentati ai Paesi occidentali non servono a nulla. La terra è
abbastanza grande per tutti, la possiamo dividere. Non sono d’accordo
con le stragi, perché potrei essere anch’io tra le vittime».
Nel
dicembre 2013 viene condannato a cinque anni di prigione, ma esce nel
luglio del 2014. Chérif Kouachi assiste a ogni udienza del processo,
sempre seduto in prima fila, davanti alla gabbia degli imputati.
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