La Stampa 11 gennaio 2015
Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento
non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro
sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono
disparità e povertà”
Anticipiamo uno stralcio di «Papa
Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale
di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican
Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il
volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi
di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale,
salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia,
finanza e dottrina sociale della Chiesa - tra questi il professor
Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi - raccontando
anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno
suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha
rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014. «Marxista», «comunista» e
«pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla
giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i
bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta
espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa
Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel
suo magistero?
Santità, il capitalismo come lo stiamo
vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche
modo irreversibile?
«Non saprei come rispondere a questa
domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a
sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire
di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza
mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove
povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con
quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte.
C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello
scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il
denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono
ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico
caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si
“scarta” quello che non serve a questa logica: è
quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora
colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei
Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25
anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”,
perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno
possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma
vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a
rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di
natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il
futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia
nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere
considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è
una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale
sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per
favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non
consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non
rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia
dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro».
Un cambiamento, una maggiore attenzione
alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica
nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti
strutturali al sistema?
«Innanzitutto è bene ricordare che
c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica
anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici
che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi
hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete
aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i
suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava
Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e
donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che
l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non
sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al
tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e
queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella
politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il
bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause
strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una
malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la
speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia
assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo
i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi
orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione
di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso».
Perché le parole forti e profetiche di
Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo
internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici
– esagerate e radicali?
«Pio XI sembra esagerato a coloro che
si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue
profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la
verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon
alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo
che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono
chiamati in causa dai richiami di Pio XI...».
Restano ancora valide le pagine della
“Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà
privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune,
e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che
gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il
defraudare della giusta mercede gli operai?
«Non solo sono affermazioni ancora
valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate
dall’esperienza».
Hanno colpito molti le sue parole sui
poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?
«Prima che arrivasse Francesco
d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state
molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del
Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a
scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico.
Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la
ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo”
sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel
capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono
stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito,
visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a
un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro
prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di
chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo?
No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci
autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo
misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri.
Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non
condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria
che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima
di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci
con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che
possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere
in pace con questi fratelli poveri».
Lei ha sottolineato la continuità con
la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare
qualche esempio in questo senso?
«Un mese prima di aprire il Concilio
Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si
presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e
particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la
scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del
magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si
tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è
documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi
alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del
III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno
ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo
avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che
gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di
tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non
solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a
Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la
proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto
incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a
suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri
mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non
condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli
della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (...)
Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo,
ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del
comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto
nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che
ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana
da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa
unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla
costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci
si prenda cura l’uno dell’altro».
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