Corriere della Sera 05/01/15
Antonella Baccaro
Marco Galluzzo
La tesi della «manina», del fantasma
di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra
ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto
il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi
lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del
governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata
l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia,
Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte
dello spirito del provvedimento.
Nel governo, più o meno nelle
stesse ore, c’è chi dice che si è trattato di «una leggerezza
spaziale». C’è chi aggiunge, con una punta di imbarazzo, anche a
Palazzo Chigi, che semplicemente, la norma, «ci è sfuggita».
Ovviamente nessun ci fa una grande figura: un Consiglio dei ministri
composto da politici e tecnici ha discusso di una norma su un reato
delicato, sensibile, controverso, su cui il Cavaliere ha ricevuto una
condanna appena nel 2013 e nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha
avuto nulla da obiettare. Una versione per certi tratti verosimile,
visto che in quella stessa riunione fu dedicato molto più tempo al
Jobs act. Ma resta «la leggerezza», tanto macroscopica da infuocare
il clima politico, e alla fine l’ammissione della
stessa.
Questione chiusa? Mica tanto. La tensione provocata
dalle polemiche sorte intorno alla norma che, secondo alcune
interpretazioni, regalerebbe a Berlusconi l’agognato rientro a
pieno titolo nella gara elettorale, ha alimentato per tutto il giorno
veleni e sospetti che emergono, qua e là, nelle versioni alcune
concordanti, altre meno, sulla genesi della norma e sul suo
obiettivo. Basta riavvolgere il nastro. La prima scena si svolge al
ministero dell’Economia, dove il lavoro preparatorio sul decreto si
è concluso il giorno prima del Consiglio dei ministri della vigilia
di Natale. Sui giornali c’erano già state polemiche su alcune
bozze circolate del decreto fiscale, ma avevano riguardato
l’innalzamento della soglia di punibilità della dichiarazione
infedele da 50 mila a 150 mila euro. Della famigerata soglia del 3%,
quella al di sotto del quale si guadagnerebbe l’impunità, nessuno
aveva mai sentito parlare.
«Fino al 23 dicembre mattina quella
norma non c’era — conferma il sottosegretario Enrico Zanetti —.
Il 24 io non c’ero, il 25 e 26 mi sono dedicato alla famiglia, ma
poi il giorno dopo sono andato a leggermi il testo del decreto
direttamente sul sito web del governo». E lì si è accorto della
novità, sollevando l problema. Il viceministro Luigi Casero
concorda: «Neanche io ho sentito mai parlare di una soglia del 3%
prima di vedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, quando
ormai ero tornato a Milano. Del resto non è stata l’unica novità:
ce ne sono almeno 3 o 4 rispetto alla versione che avevamo
licenziato».
Padoan ieri non ha parlato, né il suo portavoce
ha fornito spiegazioni sulla dinamica della vicenda. Alla domanda se
il ministro difenda o meno la norma incriminata, si è limitato a
rispondere che «non c’è una posizione nel merito della norma ma
una disponibilità a valutare gli effetti della sua applicazione».
Cioè? «Il principio discusso in Consiglio dei ministri va salvato:
è opinione diffusa che così come sono oggi le norme consentono a
quelli “bravi a evadere” di sfuggire, mentre vengono colpiti
comportamenti di rilevanza minore». Proprio di questo si sarebbe
parlato in un Consiglio dei ministri che i presenti, a dire il vero,
ricordano più per l’animata discussione sul Jobs act. Un ministro,
che in Consiglio c’era, rammenta che Padoan presentò il testo del
decreto ma che Renzi aprì una discussione su alcuni punti per
aumentare, in alcuni casi, e diminuire, in altri, le sanzioni. Si
parlò delle ricadute della norma del 3% su Berlusconi? Il ministro
giura di no.
Alla fine il testo rimaneggiato ottenne
l’approvazione «salvo intese» per consentire agli uffici di
verificare le compatibilità normative della nuova versione. Cosa che
si sarebbe fatta al termine del Consiglio, finito alle 15.45, nel
pomeriggio del 24, a Palazzo Chigi, dove l’ufficio legislativo
guidato da Antonella Manzione stese la versione definitiva insieme a
esponenti del ministero della Giustizia e dell’Economia e non si sa
se c’era anche qualcuno del gabinetto di Renzi.
Il testo del
decreto appare sul sito del governo già il 24 sera. L’attenzione
si sposta dunque sul gabinetto che ha steso il testo finale: qualcuno
dei tecnici era più consapevole degli altri delle possibili ricadute
della norma? Sul punto resta il mistero. Certo, il rimpallo delle
prime ore viene in qualche modo depotenziato dall’assunzione di
responsabilità del premier. Il testo del Mef è stato cambiato,
Palazzo Chigi vi ha apportato almeno quattro o cinque modifiche, «ma
Padoan le ha condivise tutte», e poi «è del tutto normale che in
sede di approvazione un testo venga in qualche modo modificato per
essere migliorato».
Se ai suoi uffici dice di respingere
qualsiasi insinuazione «strampalata» di scambi con l’ex premier,
se in tv va a spiegare che il provvedimento sarà fermato, rivisto e
inviato alle Camere solo dopo l’elezione del capo dello Stato, per
fugare ogni dubbio di «inciucio», a chi gli parla nella giornata,
in sostanza il capo del governo ammette che è stato fatto un errore,
che ci si trova di fronte a una svista, per quanto macroscopica.
Basterà a fugare tutte le ombre?
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