Corriere della Sera 25/01/15
Maria Teresa Meli
«Il nostro primo obiettivo è
creare l’unità del Pd sul Quirinale, perché il partito di
maggioranza deve presentarsi compatto a questo appuntamento, è una
questione di responsabilità». Manca una manciata di giorni all’ora
X, ma Matteo Renzi non sceglie ancora un nome. O, meglio, non
ufficializza la sua decisione. «In questo momento — spiega ai suoi
— dobbiamo trovare una personalità che vada bene al più ampio
numero di forze politiche, e innanzitutto al nostro partito, perché
i voti del Pd non possono essere sostituiti da quelli di Forza
Italia. E, comunque, una cosa è certa: non possiamo intestarci una
sconfitta in questo frangente».
Il premier, prima degli
incontri ufficiali, dovrebbe vedere in via riservata, Bersani e
Berlusconi. Con il secondo l’appuntamento dovrebbe essere martedì
mattina, se non prima, con Bersani forse già domani, anche se questo
incontro, il più delicato, viene smentito da molti.
Sondare i
due per Renzi è importante perché, per quei paradossi che la
politica italiana spesso presenta, al patto del Nazareno sembra
essersi sostituita un’altra intesa che i renziani hanno battezzato
ironicamente «Berlber» o «Berber». Ossia l’asse
Berlusconi-Bersani, favorevoli alla candidatura di Amato, visto da
entrambi come l’uomo che può condizionare il premier. Il quale,
ovviamente, a questo punto, non ha intenzione alcuna di dire di sì
ad Amato. «Non ho nulla di personale contro di lui, questo sia
chiaro», ha tenuto a precisare ai suoi Renzi. Che, però, per come
si sono messe le cose nutre una grande perplessità «per il modo in
cui è nata questa candidatura», a «prescindere dalla volontà»
dello stesso Amato. Nel Pd c’è chi è addirittura convinto che tra
Berlusconi e Bersani ci siano degli ufficiali di collegamento che
hanno favorito la nascita della candidatura di Amato, e c’è chi
punta l’indice contro i lettiani.
Comunque, i nomi con i quali
Renzi può giocare la sua partita quirinalizia sono diversi. Per ora
il premier si limita a delineare solo un identikit del «suo»
candidato: «Deve essere una figura che gli italiani sentano come
rappresentativa e non deve quindi essere divisiva». Ma l’elenco
delle candidature ha subito un drastico ridimensionamento dopo che
gli sherpa del Pd incaricati dalla segreteria di sondare gli umori
dei gruppi parlamentari dem hanno raccolto un orientamento di massima
che esclude tutti gli ex segretari più o meno recenti della «Ditta»
e non. Il che esclude dalla lista dei papabili diversi nomi di peso:
Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini, Piero
Fassino, Pierluigi Castagnetti, Massimo D’Alema e Pier Ferdinando
Casini. Un elenco abbastanza lungo.
Restano quindi in campo,
almeno al momento, tre nomi. Quello di Sergio Mattarella, in «pole
position». L’ex ministro, infatti, non viene visto dalla minoranza
del Partito democratico come un garante del patto del Nazareno e,
anche se Berlusconi è perplesso sul suo nome, non c’è un «no»
senza se e senza ma su di lui da parte di Forza Italia.
In campo
anche Sergio Chiamparino. Un nome del Partito democratico, che però
non vede l’ostilità dell’ex Cavaliere e che viene giudicato
autonomo da tutti. Infine, c’è Pier Carlo Padoan, il ministro
dell’Economia. Se dovesse abbandonare il suo dicastero per salire
al Colle verrebbe sostituito da un ministro politico.
E sono
ancora in corsa, nonostante tutto, i tecnici. Due nomi per tutti: il
governatore di Bankitalia Ignazio Visco ed Elena Cattaneo,
l’accademica nominata senatrice a vita da Giorgio Napolitano. Ma
qualcuno nel Pd scommette che «alla fine per mettere d’accordo
tutti si potrebbe giocare la carta istituzionale con il presidente
del Senato Pietro Grasso».
Il premier, però, ieri si è
occupato molto poco di Quirinale. In realtà la sua attenzione si è
incentrata di più sui problemi del governo. Almeno fino a quando non
è stata distolta dai discorsi tenuti in occasione dell’apertura
dell’anno giudiziario. Discorsi che, ha confidato ai suoi, lo hanno
«fortemente impressionato».
In molti procuratori si sono
scagliati contro il premier e il suo esecutivo. Uscite che hanno
lasciato «letteralmente» di stucco Renzi. «Non avevo mai sentito —
ha spiegato ai collaboratori — delle polemiche così dure e degli
attacchi così violenti nei confronti di un presidente del Consiglio
e del governo. Pazzesco, una cosa imbarazzante, non hanno mai
trattato in questo modo nemmeno Berlusconi».
Già, quello con
la magistratura è un altro fronte aperto per il presidente del
Consiglio. E non è l’unico. Ma nell’immediato è il problema del
Quirinale che Renzi dovrà risolvere.
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