Corriere della Sera 31/12/14
Antonella Baccaro
«Rilevazione delle competenze dei
lavoratori pubblici». Sta sotto l’apparente neutralità di questa
frase, contenuta nell’articolo 13 del disegno di legge delega sulla
Pubblica amministrazione, approvato a luglio e arenatosi al Senato,
il veicolo per introdurre criteri più stringenti di licenziamento
nella P.a. Criteri che Matteo Renzi ha invocato nella conferenza
stampa di fine anno, dopo le polemiche sorte circa l’opportunità
di estendere il Jobs Act ai lavoratori pubblici, indicando proprio in
tale delega lo strumento più idoneo da utilizzare per raggiungere lo
scopo.
Ma di che licenziamento si sta parlando? La questione è
stata già sviscerata durante il governo Monti, quando si aprì un
dibattito sull’estendibilità delle nuove norme sul licenziamento
economico, introdotte dalla legge Fornero, al pubblico impiego. Era
il 2012 e anche allora la querelle produsse uno scontro nel governo
tra il ministro Fornero, favorevole all’estensione delle nuove
norme e il collega della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi,
contrario. Fu questi a riepilogare lo stato della disciplina dei
dipendenti pubblici, che è rimasta la stessa, non essendo stata
cambiata né da Monti né da Letta.
1) il licenziamento per
motivi discriminatori è lo stesso sia nel pubblico che nel
privato.
2) il licenziamento per motivi economici ha nel
pubblico una disciplina ad hoc sugli esodi collettivi con una
procedura che porta alla mobilità dei lavoratori presso altre
amministrazioni e alla eventuale collocazione in disponibilità con
trattamento economico pari all’80% dell’ultimo stipendio per due
annualità. Questa norma, che esisteva già nel 2012, è stata resa
più stringente dal decreto P.a., diventato legge a agosto, che ha
aggiunto il principio in base al quale gli statali possono essere
trasferiti in sedi della stessa o di un’altra amministrazione,
collocate nel territorio dello stesso Comune o a distanza non
superiore a 50 chilometri dalla sede in cui lavorano senza previe
motivazioni. Nel caso si rifiutino possono essere messi in
disponibilità, stessa cosa se rifiutano il demansionamento,
anch’esso introdotto dal decreto. Per rendere applicabili queste
due novità mancano però le norme attuative.
3) il
licenziamento per motivi disciplinari, oggetto di battaglia durante
il governo Monti, torna centrale in questi giorni. Oggi vige ancora
il sistema introdotto nel 2009 dal ministro del governo Berlusconi,
Renato Brunetta, che introdusse un sistema di valutazione dei
dipendenti da parte dei dirigenti: chi per un biennio viene giudicato
scarsamente produttivo può essere licenziato. Durante il governo
Monti si ipotizzò di applicare la legge Fornero prevedendo che in
caso tale licenziamento risultasse illegittimo ci sarebbe stato solo
l’indennizzo e non il reintegro. Fu Patroni Griffi a escluderlo,
sostenendo che l’indennizzo sarebbe andato a gravare sulla
collettività e avrebbe comportato la responsabilità erariale del
dirigente, scoraggiando tali licenziamenti. Il dibattito si arenò
dopo un primo accordo con i sindacati, ma oggi torna
attuale.
L’intenzione di Renzi è rendere più stringenti le
norme di Brunetta, finora disapplicate in mancanza di rinnovi
contrattuali che ne specificassero l’applicazione. L’occasione è
offerta dall’articolo 13 della delega che, tra le altre cose,
intende intervenire sulla «rilevazione delle competenze dei
lavoratori pubblici», insomma sulla loro valutazione. Sul cammino
delle buone intenzioni si frappone però un macigno: in quella stessa
delega è contenuto un meccanismo micidiale: il licenziamento dei
dirigenti pubblici che per due anni consecutivi non ricevano alcun
incarico. Finora è stata questa la norma-tabù che ha relegato la
riforma allo stallo. Febbraio sarà il mese decisivo?
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