Corriere della Sera 15/01/15
Marzio Breda
Giorgio Napolitano ha chiuso il secondo
mandato in una condizione paradossale e amara. Dopo aver accettato
una rielezione che gli era stata chiesta da un largo fronte di
partiti e che fu consacrata dagli applausi dell’intero Parlamento,
è stato quasi di continuo sotto attacco. Politicamente e
mediaticamente. Considerando a posteriori quella sua scelta, ne è
valsa la pena?
«Certo che ne è valsa la pena, perché c’era in
gioco l’interesse nazionale. Cioè qualcosa che per lui contava più
di qualsiasi prezzo ci fosse da pagare». Così dice Arrigo Levi,
inviato e corrispondente nelle capitali di mezzo mondo, saggista e
infine consigliere del Quirinale nelle stagioni di Ciampi e
Napolitano, essendo amico di entrambi. Abituato a cogliere anche da
piccoli dettagli la verità di un uomo, racconta un episodio
illuminante per capire in quale chiave il senso dello Stato sia da
applicare all’azione di questo presidente ormai vicinissimo al
congedo.
«Era un giorno di metà aprile del 2013 e mi presentai
nel suo studio per sentire che cosa pensava delle tante pressioni,
dei partiti ma non solo, affinché restasse al suo posto. Se
insistono, come fai a dire di no?, gli domandai. E lui, di solito
molto misurato, quel giorno ebbe uno sfogo. Buttò sul tavolo un
plico di referti medici, e mi disse: ma allora non hai capito? Non
sai che non sto bene? Che ho altro cui pensare? Ecco perché sono
indisponibile».
Poi però cambiò opinione.
«Sì, passate
ventiquattr’ore si sentì obbligato a cedere. Sciolse la riserva e
fu rieletto. Da allora sembrò dimenticare tutto. Si rimise al lavoro
e non ho mai più udito dalla sua bocca neppure un cenno alla
stanchezza o alle preoccupazioni personali. Né tantomeno alle
polemiche venute dopo. Sono persone, lui come Ciampi, di una stoffa
particolare. Appartengono alla generazione che viene
dall’antifascismo e che si identifica in una concezione del dovere
molto forte. Se si fosse sottratto a quella chiamata nel nome della
Patria — e so di usare un’espressione fuorimoda e spesso carica
di valenze retoriche — Napolitano avrebbe vissuto il proprio ritiro
come una diserzione. Insomma, era indispensabile che rimanesse al suo
posto per la salute della Repubblica. Per fortuna, con grande
sacrificio, ha onorato l’impegno».
Resta curioso che, nel
Paese in cui trionfa l’epos giovanilistico e il premier Renzi cita
di continuo il mito di Telemaco, ci si sia affidati a una persona che
viaggiava già verso i novant’anni. Quale significato simbolico si
può ricavarne?
«Mi mette un po’ a disagio una questione del
genere, dato che sono quasi coetaneo di Napolitano», dice Levi, con
una punta di civetteria. «Credo che nei momenti di svolta si
riconosca il valore dell’esperienza e della continuità. Non
dimentichiamolo: un anno e mezzo fa l’Italia era paralizzata da una
crisi politica senza precedenti, una crisi di sistema. Era logico,
dato che stavamo attraversando tempi eccezionali, ricorrere a
qualcuno che avesse vissuto una lunga parabola dentro le istituzioni,
anche se il suo vecchio percorso politico era lontano da quello di
molti».
Inutile ricordarle che le radici di Napolitano nel Pci
sono state il pretesto di intermittenti recriminazioni del
centrodestra. Mentre dalla sinistra più estrema gli si imputava
un’eccessiva arrendevolezza verso Berlusconi, con l’accusa di
averlo salvato quando i suoi governi vacillavano.
«È trascorso
molto tempo da quando il Pci era un problema in Italia e non lo è
più da almeno vent’anni. In ogni caso Napolitano non è mai stato
condizionato da quel passato, a lui interessava la stabilità del
Paese. Perciò, evocare Berlusconi in un bilancio della sua doppia
presidenza, significa parlare di cose completamente irrilevanti.
Berlusconi ha rappresentato un fenomeno politico interessante e
originale, da studiare perché ha coinvolto molti italiani, magari
ossessionandoli per un verso o per l’altro. Ma credo di poter dire
che, per gente come Napolitano e Ciampi, l’ex Cavaliere non sia mai
stato un’ossessione. Semmai, verrebbe da dire, un incidente nella
storia della Repubblica».
E lo stesso vale per Grillo e per
altri protagonisti dell’antipolitica?
«Mi sembra che valgano gli
stessi dubbi, che pongo senza arroganza. Quanto sono significative
queste figure, che hanno magari una presa sull’opinione pubblica,
nella vicenda nazionale? Sono dei patrioti? Quale impronta possono
lasciare nell’identità di un Paese e nelle sue istituzioni?
Davvero si può ritenere che la Storia si esprima attraverso di loro?
Non siamo forse troppo schiacciati sul presente e troppo pronti a
inventarci un mito, o un incubo, al giorno?».
Ragionamenti che
Arrigo Levi estende alle critiche rivolte a Napolitano per la sfida
con certi settori della magistratura. Le liquida con un’alzata di
spalle: «Non credo, assolutamente, che un uomo come lui abbia fatto
nulla che deragliasse dai principi repubblicani, che si sia mosso
fuori da una piena consapevolezza dei suoi doveri. Lo dimostra la
tranquillità — in quel caso ben più che un dono di carattere —
con cui ha affrontato quella prova di forza». Che è stata «dura»,
e il consigliere Levi lo ammette, «ma che non va sovrastimata».
Per
lui bisognerebbe dunque relativizzare e contestualizzare criticamente
quegli snodi sui quali la politica si è dilaniata. Quando Napolitano
inventò il governo «tecnico» di Mario Monti e poi tenne a
battesimo le «larghe intese» di Enrico Letta e, per ultimo,
l’esecutivo «di scopo» (e lo scopo erano le riforme) di Matteo
Renzi. Tre esempi in cui si è contestato al presidente di essere
andato oltre i suoi poteri costituzionali. Polemiche malposte pure
queste, per Levi. Che le respinge perché maturate «nella mente di
chi ha una memoria breve». Basta riandare indietro nel tempo,
spiega, per trovare «molti precedenti» di capi dello Stato che, nei
periodi di crisi, «hanno colmato i vuoti della politica con scelte
penetranti e incisive». In definitiva: «Era, ed è, loro compito
prendere certe decisioni, senza curarsi di ciò che vorrebbero le
maggioranze o le opposizioni, ma avendo come unica bussola un’idea
di patriottismo repubblicano».
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