Corriere della Sera 05/01/15
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Papa Francesco non è sotto scacco,
come qualche raccolta di firme in suo favore fa credere. I nuovi
cardinali sono un’iniziativa forte: indicano i vescovi che egli
vuole come suoi consiglieri, cui tra l’altro è affidata la scelta
del successore. Tutti pastori, eccetto un curiale. Ma il Papa non
trascura la Curia. Le ha dedicato un grave discorso prima di Natale,
chiedendo una riforma spirituale dei vertici per dare anima a quella
istituzionale, da discutere nel prossimo concistoro. Vuole cambiare
la Curia: due anni di papato lo confermano in quella che fu la
richiesta dei suoi elettori. Per la Curia è tempo di riforme più
che di nomine.
La «carità pastorale» è la chiave di tutte le
nomine di Francesco. Lo si vede anche dai cardinali ultraottantenni
da lui scelti. Non ha guardato alle carriere: un colombiano
novantacinquenne che fu padre conciliare al Vaticano II e un vescovo
mozambicano, che ricostruì la Chiesa dopo la rivoluzione. C’è
anche un ex nunzio, Rauber, noto per un’intervista critica sulle
nomine di Benedetto XVI.
Francesco, soprattutto, chiama le
periferie a partecipare. Con quattordici cardinali vescovi, rafforza
il legame con mondi lontani, immettendoli nei processi collegiali.
Sono da tempo finite le nunziature «cardinalizie», i cui titolari
ricevevano automaticamente la porpora. Ora cadono le diocesi
«cardinalizie». I cardinali sono la voce di un popolo nel concerto
della Chiesa, non più i titolari di una sede storica.
Mancava
una voce portoghese e il Papa ha scelto Clemente di Lisbona, erede
del cardinale Policarpo noto per il suo spirito aperto. Con la nomina
dell’arcivescovo di Hanoi, il Vietnam mantiene la sua voce nel
collegio cardinalizio. Il fervente popolo cattolico di Capo Verde,
composto di tanti emigrati, trova spazio tra i cardinali. Le nomine
in Asia e in Oceania esprimono l’attenzione del Papa alla parte
meno cattolica del globo.
Francesco non guarda solo al mondo
ecclesiastico. Disegna la geografia di una Chiesa, amica di tanti
popoli (piccoli e grandi, cattolici e meno). Le periferie cattoliche
sono rappresentate e, in qualche modo, entrano nel «centro».
Il
Papa guarda anche all’Italia. Non ridimensiona il cattolicesimo
italiano, come taluni vanno dicendo. Anzi lo vuole risvegliare. Gli
dedicherà tempo con la prossima visita a una città complessa come
Napoli, cui seguirà Torino. Il Papa segue una vita sua: non è
legato ai meccanismi tradizionali di promozione cardinalizia,
squilibrati a favore del Nord. Nomina due cardinali in Italia (è
l’unico Paese): Francesco Montenegro, vescovo di Lampedusa e dei
migranti, Edoardo Menichelli, vescovo pastorale e collaboratore del
cardinale Silvestrini.
Dopo una fase di passaggio, Francesco ha
maturato una leadership sull’Italia. Lo si vede con il discorso del
31 dicembre su Roma, estensibile all’Italia: «Quando una società
ignora i poveri... quella società si impoverisce sino alla miseria,
perde la libertà». Ha chiesto: «Siamo spenti, insipidi, ostili
sfiduciati, irrilevanti e stanchi?». È una domanda anche per i
cattolici italiani. Bisogna rimettere al centro i poveri in una
Chiesa «pastorale». Con due nuovi cardinali-pastori, il Papa
ripropone la «conversione pastorale».
Resistenze ci sono,
espresse e inespresse in Curia e in Italia. Francesco lo sa e non fa
guerre. Non teme il dibattito, anche se non ama si usi la stampa per
lotte ecclesiali. Il suo programma l’ha indicato: l’ Evangelii
gaudium . Su questo va avanti. E si è scelto nuovi compagni di
viaggio.
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