Corriere della Sera 27/01/15
corriere.it
DOHUQ (Iraq settentrionale)
E
adesso? Cosa faranno adesso le donne yazide rimaste incinte dei loro
violentatori tra i jihadisti dello Stato Islamico? «Abbiamo già
abortito, o lo faremo subito. Meglio morire, che avere i figli dei
terroristi», dicono quelle che abbiamo incontrato negli ultimi
giorni tra Dohuq, Zakho e i grandi campi profughi allestiti di fretta
dai primi di agosto nelle regioni curde irachene.
Tra loro Hana
Ali Haji, 25 anni, originaria del villaggio di Al Kojo, catturata il
tre agosto e fuggita dai rapitori a fine dicembre, ha preso la
«pillola del giorno dopo» due settimane fa. «I medici qui a Dohuq
mi hanno detto che ero incinta di già oltre tre mesi. Era troppo
tardi. Non ci ho pensato sopra due volte e ho abortito
immediatamente, nonostante le possibili complicazioni mediche. L’uomo
che mi ha violentata di più, tra altri quattro, si chiamava
originariamente Alexander, un kazako cristiano 37enne convertito
all’Islam col nome di Abdullah. Non ci picchiava come invece in
genere fanno gli uomini iracheni. Però diceva che voleva un figlio
maschio da me per educare una nuova generazione di combattenti della
guerra santa. Sono tanti a pensarla come lui tra i volontari
stranieri di Isis», aggiunge.
Le sue parole aprono spaccati
nuovi sul mondo a noi così prossimo, eppure tanto remoto, del
Califfato: davvero i pirati-guerriglieri con le schiave yazide (tutte
rigorosamente convertite di forza) intendono creare una sorta di
nuova «razza eletta» alla jihad? In questo caso l’aborto sarebbe
il colmo della ribellione, l’estrema vendetta delle donne contro
chi le ha violate. «Io non sono rimasta incinta. Ma se fosse
avvenuto, non avrei esitato a impiccarmi o tagliarmi le vene, come
hanno fatto tante altre ragazze sin dai primi giorni in
quell’inferno», racconta Fakria Badal Halaf, 18 anni, violata dal
tre agosto sino alla sua fuga rocambolesca a fine ottobre da un solo
uomo.
Lei se lo ricorda benissimo. Dice: «Il suo nome di
battaglia è Arkan, oppure Abu Sarkhan, ha 35 anni, è un sunnita di
Mosul. Mi diceva che se fossi stata carina con lui non mi avrebbe
passato ad altri, come è la regola tra loro. Ogni volta che noi
abbiamo le mestruazioni si prendono una pausa e cercano di venderci
ad altri gruppi. Ma lui mi ha tenuta. Diceva di non avere altre
donne. Però ho scoperto che era sposato con due figli di uno e tre
anni. Allora mi ha portato da sua moglie Sabrina, 21enne. Lei è
andata su tutte le furie. Lo ha aggredito, mi ha dato della
prostituta. Ma quando le ho spiegato che ero stata presa con la forza
siamo diventate amiche, ha vietato ad Arkan di toccarmi, poi mi ha
prestato il suo telefonino. Ho chiamato il mio fidanzato a Dohuq e
segretamente abbiamo architettato la mia fuga. Ora lui dice che mi
sposerà anche se non sono più vergine».
La sorte
relativamente fortunata toccata a Fakria appare comunque un’eccezione
nella tragedia corale delle yazide. «Quelle rimaste schiave sessuali
di Isis sono in maggioranza giovani, spesso di età compresa tra i 12
e 25 anni. Quante? Non sappiamo con precisione, per ora abbiamo la
documentazione di 1.582 rapite, ma potrebbero essere anche il doppio,
stimiamo che il 90 per cento sia stato violentato. In questa fascia
di età è plausibile pensare che tante possano essere incinte»,
dice Marzio Babille, rappresentante Unicef (l’agenzia Onu per
l’infanzia) in Iraq. Un fenomeno che ricorda da vicino le bosniache
violentate dai serbi due decenni fa, il dramma del Kosovo, le
violenze in Congo, Uganda, Sudan, Niger.
Anche per le vittime di
Isis i tabù sociali restano giganteschi. «Eravamo in sette
prigioniere della stessa banda di ceceni. Io e un’altra abbiamo
organizzato la fuga da Raqqa, in Siria, durante un bombardamento
americano a fine novembre. Quei bombardamenti sono la manna. I
terroristi sono presi dal panico ogni volta, scappano da tutte le
parti e si dimenticano di noi. Le nostre cinque compagne però sono
rimaste, dicendo che tanto le famiglie, i mariti o i fidanzati, le
avrebbero rinnegate. Una aveva paura di essere uccisa dal padre per
aver perduto la verginità», ricorda Wadha Ismahil, 27 anni, del
villaggio di Al Jazera, presso la montagna di Sinjar. Continua: «A
Raqqa c’è una ginecologa a cui chiediamo aiuto per abortire. Ma
lei ha paura, dice che se lo facesse la ucciderebbero».
Per le
giovani che sono riuscite a scappare o sono state «riscattate»
dalle famiglie (i prezzi variano tra 200 e 2.000 dollari) i problemi
non sono finiti. Ancora l’Unicef calcola che da agosto ad oggi
siano meno di 600 tra donne e bambini. «Alcune si sono suicidate
dopo il ritorno. Nella sola regione di Dohuq le donne incinte a opera
dei terroristi dell’Isis sono almeno una ventina. La legge irachena
vieta l’aborto, vorremmo creare un centro medico di assistenza»,
afferma Cheman Rasheed, responsabile dell’organizzazione non
governativa «Wadi», finanziata anche dal governo tedesco. Un aiuto
potrebbe venire da un centro di accoglienza. A questo fine il governo
italiano ha appena stanziato un milione di euro, indirizzato per lo
più ai profughi yazidi, di cui la metà per l’assistenza alle
donne violentate. «Stiamo pensando a una casa rifugio e
all’eventualità di un breve soggiorno curativo in Italia per i
casi più gravi», dicono alla Farnesina.
Casi che non mancano.
Per esempio Huda, una dodicenne venduta a Mosul, rivenduta a Raqqa,
riuscita a scappare in Turchia con altre, che è diventata muta e
trema come una foglia quando sente parlare arabo, o vede un uomo con
la «barba lunga». Le donne del campo profughi di Bersev, presso
Zakho, si passano il numero di un medico americano arrivato di
recente, che sarebbe pronto a ricostruire la verginità. Le
organizzazioni tradizionali yazide paiono poco attrezzate per
l’emergenza. A Lalish, il loro centro spirituale sulle montagne a
nord di Dohuq, abbiamo assistito al battesimo yazida di alcuni
anziani e bambini che erano stati costretti a farsi musulmani. E non
manca la voglia di vendicarsi. La storia di Sabrin, una
diciassettenne che ha raccontato di aver ucciso il violentatore
saudita col suo mitra mentre dormiva, aleggia come un mito tra i
profughi.
Eppure, su tutto dominano dolore e sofferenza. Incubi
notturni, insonnia, solitudine, fobie da stress. Ancora Hana, la
ragazza che ha appena abortito, singhiozza apertamente nel ricordare
quegli orrori. Con lei c’è anche la sorella 21enne Sana, a sua
volta violentata. Padre, madre e due fratelli sono ancora tra i
desaparecidos. Come lo è anche Adia, la terza sorella diciottenne
rimasta prigioniera del suo violentatore, il 45enne Haider Karim, che
Hana chiama «il russo».
Ricorda: «I terroristi vivono in
gruppi di cinque o dieci uomini. E si passano più volte le più
belle tra noi. Hadia piaceva a Karim, che era il capo e se la teneva
per sé. Esigeva però che lei mostrasse piacere mentre la prendeva.
Lei invece lo insultava. Allora lui la torturava. Ho visto che la
puniva con scariche elettriche ai capezzoli. La teneva con le mani
legate dietro la schiena anche per dieci giorni». L’intervista
termina qui. Lei piange ed è davvero inutile insistere.
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