VITTORIO ZUCCONI
La Repubblica 3 gennaio 2015
Tre volte governatore dello stato di
New York non ebbe il coraggio di accettare la candidatura
Era troppo di sinistra, Mario, troppo
eloquente, troppo italiano per diventare presidente degli Stati
Uniti. Con quella maledetta vocale alla fine del cognome, segno
inconfondibile della sua italianità pesante come una macina da
mulino, Mario Cuomo fu il primo wop, il primo immigrato italiano a
“vedere” la Casa Bianca, ma senza avere il coraggio di allungare
la mano. Il suo partito Democratico e milioni di elettori lo
aspettarono e lo invocarono per dieci anni, incantati da quella sua
“silver tongue”, da quella lingua d’argento che aveva fatto
tintinnare i cuori alla convention di San Francisco nel 1984, ma
invano.
Lo avevano soprannominato “L’Amleto
dell’Hudson”, per le sue esitazioni, ma meglio sarebbe stato
chiamarlo il “Godot di Queens”, perennemente atteso e mai
arrivato. Eppure la strada verso il sacro Gral della repubblica, la
Presidenza, sembrava spalancata davanti ai piedi di Mario Matteo
Cuomo, da quando il ragazzo che aveva tentato la carriera di
giocatore professionista di baseball con un ingaggio da duemila
dollari nel 1952 per i “Pirates” di Pittsbugh prese una pallinata
nella nuca e lasciò gli stadi per la facoltà di legge dei gesuiti
alla Fordham University.
Più di ogni altro italo americano
sopravvissuto al razzismo dell’America anglo, il figlio di Andrea
arrivato da Nocera Inferiore per aprire una “grosseria”, un
negozio di generi alimentari a Queens e di Immacolata da Tramonti,
sopra Salerno, portava le stigmate del messia politico. Sarebbe
potuto essere il profeta, il Mosè di una comunità italo americana
che mai aveva saputo crearsi una lobby buona, zavorrata dalla pessima
lobby di Cosa Nostra. Ma gli mancava il “fuoco nella pancia” e
gli pesò sempre l’ombra del nome, il timore che qualcuno, nel
crogiolo della campagna, buttasse nel fuoco sospetti e voci di mafia
su di lui o sulla famiglia della moglie, Raffaella, la donna che
aveva sposato 60 anni or sono.
Eppure era il cavallo sicuro, il
purosangue che avrebbe dovuto soltanto correre per vincere. Dopo
avere spazzato via i repubblicani da Albany, la capitale dello Stato
di New York, suonando Eye of The Tiger , l’inno di Rocky come
colonna sonora della campagna, Cuomo sarebbe stato eletto, rieletto e
trieletto al governatorato. E senza mai concedere nulla del proprio
bagaglio ideale e dei propri valori. Era ferocemente liberal ,
progressista anti-reaganiano e in una delle sue frasi più sonore
pronunciate al Congresso di San Francisco aveva chiesto di «sceavuto
gliere la pace contro la guerra» perché «la guerra è morte, la
pace è vita».
Da uomo cresciuto all’ombra di un
padre che doveva misurare ogni fetta di capicollo e di caciocavallo
per tenere a galla il negozietto, Mario era stato un amministratore
ferreo della bancarottiera New York. Aveva ridotto le tasse eppure
aumentato i servizi. Quadrato il bilancio e creato il primo servizio
metropolitano per i figli della strada e per i senza tetto. Imposto
le cinture di sicurezza per legge. Cattolico diligente e osservante,
dunque inflessibilmente anti-aborto volontario, aveva il coraggio di
indignare tutti, i pro e i contro. «Le convinzioni personali di un
amministratore pubblico non devono diventare legge che valga anche
per chi non le condivide» aveva detto, meritandosi la minaccia di
scomunica dal cardinale di New York, O’Connor. E anche sulla pena
di morte non mollò mai. Con lui, il boia non passò.
Il tabernacolo della Casa Bianca era
aperto, il calice a portata di mano. “Run, Mario, Run”, corri,
Mario, invocavano i democratici che volevano un rivale credibile nel
1988 contro l’inevitabile successione del vecchio Bush a Reagan.
Cuomo parve il salvatore dopo il disastro del candidato di testa,
Gary Hart, sorpreso con una stupenda ragazza sulle ginocchia su uno
yacht in Florida mentre lui batteva il New Hampshire con l’umiliata
consorte al fianco. Nelle nevi del febbraio nel Nord attendemmo di
ora in ora l’arrivo di Cuomo sempre annunciato e mai avvenuto, come
l’avremmo atteso quattro anni dopo, nel 1992, quando la candidatura
di un certo Bill Clinton pareva agonizzare.
Arrivo, non arrivo, «non ho piani
neppure per fare piani», diceva la voce non più argentea di Mario
da New York dove un aereo con il piano di volo pronto e i serbatoi
pieni era pronto per portarlo alle primarie del New Hampshire ‘92.
Arrivò al confine dello Stato, fra Massachusetts e New Hampshire, ma
non attraversò mai il Rubicone. Non si candidò. Lasciò gli
elettori liberi di aggiungere il suo nome alla scheda, ma gli
elettori, delusi e indispettiti dal Godot di Queens, gli concessero
appena il 3% dei voti. Fu la fine dell’ Italian Dream .
Mario che non sapeva decidersi, Mario
che respinse anche l’offerta fatta da Clinton di diventare giudice
alla Corte Suprema (gli rispose di no con un fax, senza il coraggio
di dirglielo di persona) si sarebbe portato via il segreto del gran
rifiuto. Perché, Governor, non accettò di correre? Gli domandai una
sera del 1992 salendo insieme le scale mobili del Madison Square
Garden per la Convention democratica dove proprio lui avrebbe
lanciato Clinton verso la Casa Bianca. Mi sorrise con quella sua
faccia così carnosa, così italiana, piegando le pieghe forti del
viso: «Perché avrei perso e i tempi non erano ancora maturi per un
presidente con un nome italiano».
Mentre lui moriva, ieri l’altro, per
un cuore al collasso, Andrew Cuomo, il figlio con il nome del nonno,
pronunciava il discorso di insediamento sulla poltrona di governatore
di New York.
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