Corriere della Sera 03/01/15
Francesco Verderami
Tra Renzi e Berlusconi l’accordo è
di fare l’accordo, e sul Quirinale per ora può bastare. Non c’è
quindi bisogno di vedersi subito, tantomeno prima che Napolitano
abbia formalizzato le dimissioni: è questione di galateo
istituzionale ma anche di opportunità politica. Il patto del
Nazareno regge e lo si vedrà fra una settimana, quando l’Italicum
farà da stress test alla corsa per il Colle.
Il vero appuntamento
tra il premier e il Cavaliere è fissato l’otto gennaio al «check
point Charlie» del Senato sulla legge elettorale: l’accordo
prevede che il leader del Pd ottenga l’approvazione della riforma
prima del voto sul presidente della Repubblica, e che in cambio al
capo di Forza Italia vengano garantite la norma sui capilista
bloccati (con cui impedirebbe un’opa ostile nel suo partito) e la
clausola di salvaguardia sull’entrata in vigore dell’Italicum
(con cui si allungherebbe formalmente la legislatura almeno per altri
due anni).
Qualsiasi modifica metterebbe a rischio il patto, ed
è evidente che quanti si oppongono all’intesa di sistema tra Renzi
e Berlusconi useranno Palazzo Madama come luogo per tendere
l’agguato, consapevoli che gli effetti si ripercuoterebbero sulla
partita per il Colle. Fino ad allora le sorti dei quirinabili saranno
appese alle manovre dei leader di partito e dei loro avversari
interni. Perché questo è il punto: lo stesso Parlamento che due
anni fa bruciò ogni intesa prima di affidarsi ancora a Napolitano,
oggi si ripresenta all’appuntamento maggiormente frammentato. E
dunque, chi più riuscirà a tenere uniti i propri gruppi avrà la
golden share all’atto decisivo.
È questa al momento la
priorità del premier e del Cavaliere, sebbene i due già studino la
tattica dell’altro. Berlusconi, per esempio, è convinto che
«bisognerà lasciar fare Renzi», che «il nome vero uscirà
all’ultimo momento». È un’opzione, che però si porta appresso
dei rischi. Tuttavia le prime schermaglie consentono al presidente
del Consiglio di capire su chi verrà posto il veto. Dicendo che non
accetterà di votare «un candidato con la tessera del Pd», il
Cavaliere sembra volersi realmente muovere d’intesa con i
centristi.
«Dobbiamo fare asse insieme», ha spiegato l’altra
sera l’ex premier a un dirigente di Ncd, ripetendo ciò che aveva
detto alcune settimane fa ad Alfano. Sarebbe un’operazione «di
blocco preventivo» rispetto ai quirinabili di stretto giro renziano,
a quei ministri cioè che il leader democratico fa mostra di voler
proporre: da Delrio alla Pinotti. Al tempo stesso sembrerebbe un
segnale di apertura verso chi — come Veltroni e Mattarella — non
è (più) dirigente del partito.
Ma siccome nessuno conosce
meglio Berlusconi degli stessi berlusconiani (per quanto ex), sono
pochi a volersi già ora esporre. Anzi, ieri il coordinatore di Ncd
Quagliariello ha lanciato un messaggio pubblico double face: ha
parlato a nuora Renzi, «sul Colle niente giochi», perché
ascoltasse suocera Berlusconi. È stato un modo per accreditare le
voci da tempo circolanti su un possibile accordo tra il Cavaliere e
Prodi grazie agli uffici di Putin: l’intesa garantirebbe quella
«pacificazione» a cui i dirigenti di Forza Italia mirano e che cela
la richiesta della «riabilitazione» politica del loro leader.
Dal
Pd sono arrivate autorevoli rassicurazioni, «non ci facciamo
scegliere il presidente della Repubblica dal Cremlino», che sanno
tanto di allergia verso il fondatore dell’Ulivo. Peraltro lo stesso
capo di Forza Italia aveva pubblicamente smentito, dopo aver spiegato
a un vecchio amico come Cicchitto che «a Prodi non ci penso proprio,
figurarsi». Semmai, nei colloqui di queste ore, Berlusconi ribadisce
in privato ciò che si era lasciato «sfuggire» in pubblico: «Io
continuo a stare su Amato e aspetto che sia Renzi a propormi il suo
nome». E se Renzi quel nome non lo proponesse, e se fosse anche
questa una manovra diversiva? Ma soprattutto, chi avrà davvero la
forza di opporre un veto al premier tra l’alleato di governo
Alfano, che siede al suo fianco in Consiglio dei ministri, e
l’alleato di opposizione Berlusconi, che ambisce ad essere
kingmaker nella corsa per il Colle?
Di certo c’è che il
premier intende chiudere un’era. Dagli albori della Seconda
Repubblica, infatti, gli inquilini del Quirinale hanno giocato un
ruolo diretto nelle vicende politiche: Scalfaro arrivò a porre il
veto sulla squadra dei sottosegretari del governo Amato; Napolitano
spaziò dalla lettera all’allora presidente della commissione
Affari costituzionali del Senato Vizzini, su alcuni emendamenti del
lodo Alfano, fino alla telefonata con cui invitò Cuperlo ad
accettare l’incarico di presidente del Pd. Che Renzi voglia cambiar
verso è indubbio. Ma deve tenere in considerazione lo scrutinio
segreto.
L’idea di tener coperto fino all’ultimo il nome del
suo quirinabile può risultare pericolosa: tutti lo attendono al
varco della quinta «chiama», quella decisiva. Se si andasse troppo
oltre, il voto sulla presidenza della Repubblica si trasformerebbe in
una lotteria, e quanti oggi si tirano ufficialmente fuori dalla corsa
per il Colle potrebbero rientrarci sulle macerie del disegno
renziano. Siccome il leader del Pd lo sa, allora può darsi che anche
la sua tattica dilatoria sia solo tattica.
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