Corriere della Sera 11/01/15
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Dopo avere pianto i morti e condannato
il crimine, questo è il tempo delle decisioni. Se le strategie
adottate sinora non hanno impedito l’aggressione di Parigi occorre
rifare i conti con la realtà. A una minaccia così evidente e
diffusa è necessario rispondere con altri mezzi e programmi.
Dobbiamo sapere anzitutto che cosa vogliono i nostri nemici.
Distruggere le democrazie occidentali? Uccidere o convertire tutti i
fedeli di altre religioni? Strappare Roma al Papa, come sembra essere
nelle intenzioni del «califfo» Al Baghdadi? Commetteremmo un
errore, a mio avviso, se pensassimo di essere il principale bersaglio
dell’Islam jihadista. La vera guerra, oggi, è quella che si
combatte all’interno del mondo musulmano.
È la guerra tra una
setta fanatica e regimi politici spesso incerti, titubanti, ma tutti
più o meno collegati, per ragioni di affinità o convenienza, con
l’Europa, gli Stati Uniti e la Russia. È una guerra civile senza
quartiere dove le vittime musulmane sono incomparabilmente più
numerose di quelle provocate dagli attentati terroristici nelle
nostre città. Ed è ulteriormente complicata dall’antico odio fra
le due famiglie religiose dell’Islam: sunniti e sciiti.
Si
combatte sulle frontiere meridionali della Tunisia, in Cirenaica, nel
Sinai, in Siria, nelle province che separano la regione di Baghdad
dal Kurdistan iracheno, nello Yemen, nel Caucaso, in Afghanistan, in
Pakistan, Somalia, Kenya e Nigeria, con improvvisi focolai che si
accendono anche negli Stati musulmani dell’Asia sud-orientale.
La
guerra contro l’Occidente, in questo quadro, è un conflitto
parallelo diretto contro Paesi che i jihadisti considerano protettori
o padroni dei loro odiati fratelli. È utile alla loro causa perché
serve anzitutto a dimostrare la vulnerabilità dell’Occidente e la
micidiale forza del movimento islamista. Ma il principale obiettivo
strategico è il reclutamento di nuovi adepti in comunità musulmane
dell’Occidente che vorrebbero trasformare in altrettante quinte
colonne. Ogni attentato è un appello alle armi, un bando di
concorso. Il vero nemico è altrove.
Se questa è la situazione
in cui occorre combattere non abbiamo molte scelte. I nostri amici e
alleati sono tutti i Paesi musulmani o cristiani che si battono sullo
stesso fronte, sono minacciati dagli stessi nemici e rischiano di
soccombere di fronte all’ondata islamista.
Winston Churchill
disse un giorno che se Adolf Hitler avesse invaso l’inferno, lui
non avrebbe mancato di parlare gentilmente del diavolo alla Camera
dei Comuni. Il presidente egiziano Al Sisi, il presidente siriano Al
Assad, il presidente russo Putin e il presidente iraniano Rouhani non
sono diavoli. Sono alla testa di regimi che noi consideriamo carenti
di democrazia, polizieschi e repressivi. Ma conoscono l’Islam
meglio di noi, hanno già fatto in passato dolorose esperienze
(abbiamo dimenticato ciò che accadde nella scuola di Beslan,
nell’Ossezia del nord?) e hanno buone ragioni per battersi affinché
il loro Paese non venga continuamente insidiato dall’estremismo
sunnita o sia destinato a divenire una provincia del Califfato. Se
qualche Paese occidentale fosse disposto a mettere truppe sul terreno
potremmo forse fare a meno della loro collaborazione. Ma da quando
gli Stati Uniti hanno eliminato questa opzione non abbiamo altra
scelta fuor che quella di sostenere con tutti i mezzi di cui
disponiamo quelli che sul terreno già ci sono.
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