Da ieri sappiamo che c'è un portone, a Roma, oltre il quale non arriva neanche il rumore della crisi. E' il portone della Corte Costituzionale, i cui giudici hanno solennemente eletto ieri un nuovo presidente -Giuseppe Tesauro- che però resterà in carica solo per tre mesi. Ormai è la prassi.
Invece di scegliere un presidente che rappresenti autorevolmente la Corte per qualche anno, i giudici eleggono il collega che sta per scadere. Sapendo che così poi toccherà ad ognuno di loro, o quasi, il titolo di "presidente", e quindi di "presidente emerito". Insieme, naturalmente, allo stipendio di 549.407 euro (pari al triplo del collega della Corte Suprema americana) e alla corrispondente, generosa pensione presidenziale. Attingendo alla quale possono pubblicare anche un libro: un pamphlet contro la casta, per esempio
È impossibile spiegare a un lettore
straniero com’è possibile che un partitino agonizzante come Sel
possa bloccare il parlamento italiano con oltre seimila emendamenti
alla riforma costituzionale. Un partitino che nei sondaggi viaggia
sul 2 per cento e nel quale una taliban come Loredana De Petris ha
firmato di propria mano oltre cinquemila emendamenti per diventare
l’eroina dell’ostruzionismo trasversale.
L’Italia ha perso 9 punti di pil, ha
sei milioni di poveri, il tasso di disoccupazione giovanile sta
arrivando al 40 per cento, la situazione economica rimane drammatica.
Ma questa emergenza non sembra minimamente contagiare l’aula
foderata di palazzo Madama, che somiglia a un circo: cori da stadio,
scene isteriche, insulti volgari, accuse di fascismo e dittatura
strisciante e l’invito imbarazzante di Vito Crimi del Movimento 5
stelle a “tirare fuori le palle”. Il vergognoso caos al senato
conferma la vocazione italiana al teatrino politico, alle beghe
ideologiche, la predilezione per le barricate e il muro contro muro.
La passione per i cavilli, commi, sofismi e cortocircuiti per
rallentare le votazioni a tutti i costi.
Mentre in altri paesi in tempi di crisi
si antepongono gli interessi del paese alle differenze politiche,
ideologiche o religiose, in Italia si lotta con accanimento per
affossare ogni cambiamento. L’Italia è un paese all’inverso, che
da sempre tollera con benevolenza la dittatura delle minoranze. Per
decenni gli italiani si sono piegati alla prepotenza di camionisti e
controllori di volo, alle proteste di corporazioni come avvocati o
farmacisti, a sindacati che hanno bloccato Pompei per alcune
assemblee, ai musei chiusi per scioperi selvaggi, alle prime di
opere e teatri saltate per la protesta di qualche decina di
musicisti. Si sono rassegnati all’isterismo e alla prepotenza dei
tifosi negli stadi e ai blocchi dei forconi.
È difficile far capire a un lettore
straniero l’esultanza del Fatto quotidiano perché il suo “appello
contro i ladri della democrazia” è stato firmato dallo 0,2 per
cento della popolazione. Con lo slittamento dell’ennesima riforma a
settembre, l’Italia si conferma come paese dell’immobilismo, del
settarismo e dell’eterna cialtroneria parlamentare. Dove chi cerca
di sbloccare il paese deve temere sgambetti da tutte le parti, anche
dalla propria.
Un paese in mano a un partito potente,
anche se non ufficialmente costituito: quello contro le riforme. E le
penose sceneggiate che vediamo quotidianamente in senato non fanno
prevedere nulla di buono per il futuro del bel paese.
Il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad
accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica
rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti
Le drammatiche notizie che continuano a pervenire da Israele e
Gaza stanno scuotendo il mondo intero, costretto ad assistere pressochè
paralizzato perché, ancora a cento anni dall’inizio della prima guerra
mondiale, non è riuscito a costruire la forza della politica e della
diplomazia nei conflitti internazionali. Anche la “nostra” guerra nacque
così, nella distrazione e sottovalutazione delle potenze europee,
bloccate dalla convinzione dell’ineluttabilità. E pure oggi, in presenza
di una guerra che ha già provocato la morte di oltre mille persone nel
cuore dell’Europa, l’Europa sembra assente.
Comunque immobile, come se le cose potessero sistemarsi da sé e non
rischiassero invece di innestare nuovi processi di intensificazione e
allargamento. Figuriamoci se “questa” Europa, divisa ed egoista, può
posare il suo sguardo su quanto sta accadendo nel perimetro del
Mediterraneo e nell’entroterra più prossimo. Non basta giustificarsi
dicendo che al punto in cui sono giunte le cose non si sa cosa fare.
Occorreva – e occorrerà nell’immediato futuro – lavorare perché le cose
non giungessero a questo punto, posto che nulla di quanto sta accadendo
era imprevedibile.
Anzi, negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze europee si sono
rese responsabili dell’aggravamento della situazione, come nel caso
della guerra in Iraq e dell’improvvisato sostegno a quelle che avrebbero
dovuto essere le primavere arabe. Pensare che il modello di democrazia
occidentale potesse essere esportato e rappresentare la soluzione per
paesi pur oppressi da forme di dittature giustamente inaccettabili ai
nostri occhi, senza un esame serio dei diversi contesti e senza una
strategia di sostegno effettivo e duraturo è stato un errore.
Da più parti a suo tempo si è sottovalutato (quando non
ridicolizzato) l’ammonimento di un profondo conoscitore del mondo arabo e
in particolare mussulmano come don Giuseppe Dossetti, secondo cui la
lunga memoria di quei popoli, la loro attitudine a sedimentare l’odio,
la loro propensione all’uso della violenza come strumento di dominio ed
espansione religiosa, avrebbe portato a un continuo rivolgimento degli
equilibri in tutta l’area del vicino e Medio Oriente e, da ultimo, alla
espulsione progressiva dei cristiani da luoghi per loro sacri.
Ne hanno parlato in queste settimane su Europa tra gli altri Guido Moltedo, Aldo Maria Valli e da ultimo, con un articolo che in effetti è un bellissimo saggio storico, Franco Cardini.
Di per sé qualcuno potrebbe pensare che si tratterebbe di una
non-notizia poiché i cristiani dovrebbero conoscere e accettare il
destino della Croce, ma la politica ha il dovere di altro tipo di
ragionamento e responsabilità. Deve cioè intervenire là dove si
perpetuano ingiustizie e violenze, e l’espulsione dei cristiani dai loro
Luoghi ha un rilievo politico enorme. Non fosse altro perché la loro
presenza lì ha il merito e il valore della rappresentazione di un
pensiero “altro” rispetto a quello di culture dominanti che non
conoscono, o non conoscono in misura sufficiente, i valori del perdono,
della solidarietà, della vita, della convivenza, del pluralismo
religioso, senza di cui sarà assai difficile cambiare la situazione.
Quanto sta accadendo, nei conflitti fra sciiti e sunniti, fra
islamici in genere e curdi, fra islamici e cristiani, fra israeliani e
palestinesi, è l’affermazione di un sistema di controvalori rispetto a
quelli del cristianesimo. Se tale sistema di controvalori lo si lascia
crescere e dilagare, ciò che osserviamo oggi potrà risultare solo la
prima parte di un processo che può investire direttamente e
indirettamente anche l’Europa.
Anche per ciò la denuncia di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera,
sull’“Indifferenza che uccide”, riguardo al fenomeno delle persecuzioni
dei cristiani, a causa della perdita in occidente del senso religioso e
della paura che paralizza soprattutto l’Europa, è condivisibile, ed
evocherebbe – a mio avviso – una iniziativa del nostro governo che, per
bocca del suo presidente in varie occasioni, ha mostrato sensibilità e
anticonformismo rispetto ad altri governi dell’Unione, e ha anche
ottenuto un risultato importante con la liberazione di Meriam, la
ragazza sudanese condannata a morte per la sua fede cristiana.
Non c’è dubbio infatti che l’occidente negli ultimi venti anni si è
mostrato privo di strategia al riguardo. L’Europa non ne parliamo. Così
come non c’è dubbio che se scattassimo una istantanea oggi sul quadro
mediorientale, non possiamo che riconoscere che ha ragione Israele nel
pretendere di disarmare i palestinesi di Gaza, cioè l’arsenale militare e
ideologico che attenta alla sua esistenza (pur non avendo ragione
nell’uso sproporzionato di forza militare e nell’assoluto rifiuto di
fermarsi di fronte ai drammatici costi umani che esso determina), ma se
solo allarghiamo la prospettiva sul piano storico e su quello del futuro
prevedibile, non possiamo non renderci conto che di questo passo il
conflitto è destinato a sfuggire di mano e ad accumulare ulteriori e
ancora più poderosi serbatoi di odio destinati a rendere in primo luogo
ancora più insicura l’esistenza “in pace” di Israele stesso. La spirale
va fermata sin che si è in tempo.
Cosa accadrebbe infatti se i palestinesi della Cisgiordania
aderissero (vi sono già manifestazioni di piazza a Ramallah, piuttosto
inquietanti) alla ripetute sollecitazioni provenienti dall’Iran e dal
Qatar ad aprire un nuovo fronte? E se (sto parlando di scenari
tutt’altro che improbabili) crollasse la Giordania sotto la pressione
dei miliziani dell’Isis, i quali sono già penetrati a Mann, a soli 250
kilometri da Amman? Israele si sentirebbe più sicura? Non credo proprio.
Ma torniamo alla riflessione del professor Cardini. Ieri ha scritto
che, a un certo punto della storia recente: «La pesante e spregiudicata
politica britannica cominciò a diffondere tra le popolazioni arabe un
pregiudizio nuovo, per esse prima sconosciuto: l’astio verso gli
occidentali. E dal momento che era (e resta) comune la confusione tra
Occidente e Cristianità, l’odio antioccidentale si andò traducendo da
allora anche in odio indiscriminatamente anticristiano». La guerra
contro l’Iraq – aggiungo io – ha fatto il resto. All’odio verso gli
ebrei si è così aggiunto quello verso i cristiani.
Ecco perché l’Europa, che nella sua coscienza da un lato porta il
peso della shoah e dall’altro è custode di quei valori cristiani che
hanno forgiato la civiltà della tolleranza e del pluralismo religioso,
ha oggi il dovere di “pensare” e aiutare i popoli mediorientali ad
accettare le vie della ricostruzione di una geografia politica
rispettosa dei diritti di sopravvivenza e convivenza di tutti.
Accogliendo in tal modo l’appello disperato di tanti donne e uomini di
pace guidati da Nurit Peled, cittadina israeliana che ha perso una
figlia in un attentato kamikaze, Premio Sakharov dell’Ue: «Noi cittadini
di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da
soli ottenere la fine dell’occupazione e fermare il bagno di sangue.
Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la comunità internazionale e della
Unione europea in particolare…».
Nel Vicino e Medio Oriente comunità antichissime sono costrette a
lasciare le proprie terre perché viste come nemiche e caricate di colpe
non loro
Ci sono un dramma antico e una tragedia attuale nella storia dei
“cristiani d’Oriente”: e più precisamente forse delle “Chiese cristiane
arabe”, dal momento che nel mondo genericamente definibile come
“orientale” (un aggettivo che copre in realtà una serie di oggetti molto
diversi fra loro) noi siamo usi a comprendere non solo i fedeli locali
asiatici e nordafricani della Chiesa cattolica e di quelle riformate,
quanto più specificamente quelli di Chiese detentrici di una loro lunga
tradizione.
E qui c’imbattiamo in comunità cristiane molto antiche, appartenenti a
etnie che addirittura hanno abbracciato il cristianesimo prima
dell’impero latino o che comunque sono state riconosciute dai potentati
dei loro paesi in tempi precedenti rispetto alla cristianizzazione
formale dell’impero romano, verificatasi alla fine del IV secolo.
Alludiamo qui alla Chiesa armena e a quella copta d’Etiopia e di
Nubia, peraltro collegata a quella copta ma araba d’Egitto, e alla
Chiesa nestoriana persiana diffusasi in Siria, Iraq e Kurdistan a
occidente, in India e in Cina a oriente.
Un altro caso ancora sarebbe quello delle Chiese etniche dell’arco
caucasico – la georgiana, l’osseta, l’“albana” azerbagiana –, a lungo
contese tra disciplina greca e autocefalia locale.
Chiese cristiane arabe Limitiamoci qui però ad alcune considerazioni riguardanti le
Chiese cristiane etnicamente, linguisticamente, culturalmente e
liturgicamente parlando “arabe” o appartenenti ad etnie a quella araba
molto vicine (come l’aramaico-siriaca e la caldea) e oggi si può dire ad
essa ormai assimilate.
Le genti arabe, riunite in tribù nomadi disseminate tra la “Fertile
Mezzaluna” (vale a dire l’arco fertile delle rive dei fiumi Eufrate e
Oronte, a nord del deserto detto appunto “arabico”, e quel deserto
stesso), erano a lungo vissute ai margini degli imperi romano e persiano
senza mai lasciarsi davvero inquadrare in alcuno di essi e dando talora
luogo a “regni” che avevano come capitali città carovaniere (come
Palmyra in Siria, o Petra capitale dei nabatei, nell’attuale Giordania, o
Sanaa capitale dei sabei nell’antica Arabia felix, lo Yemen odierno).
Il cristianesimo dovette diffondersi abbastanza presto tra gli arabi,
e fino a tempi recenti alcune tribù nomadi tra Giordania e Arabia
saudita hanno mantenuto un loro “coroepiscopo”, vescovo appunto di una
diocesi “nomade” che coincideva con l’area interessata dalla loro
transumanza.
Il Concilio di Calcedonia Una prima distinzione importante, tra le Chiese arabe come tra
quelle orientali in genere, si stabilì con il Concilio di Calcedonia del
451, allorché da un lato si condannò l’eresia monofisita (il che
allontanò dalla Chiesa protetta dall’impero i “copti” egizi, nubiani,
etiopi nonché i “giacobiti” siriani e i monofisiti armeni), dall’altro
si sancì la superiorità del patriarcato di Costantinopoli su quelli
antiocheno e alessandrino, che nel precedente Concilio di Nicea del 325
si erano vista riconoscere pari dignità rispetto a quello.
Da allora, i fedeli siro-caldeo-arabi chiamarono “melkiti” (dal termine malik, che nelle loro lingue affini significa, con qualche variante, “re”: e allude evidentemente al balileus,
all’imperatore regnante in Costantinopoli) gli appartenenti alle
comunità ecclesiali che si erano dichiarate fedeli al dettato conciliare
calcedoniense e che per questo si distinguevano tanto dalle comunità
cristiane che erano rimaste invece fedeli alla dottrina
nestoriano-eutichiana già condannata nel precedente concilio di Efeso
del 431 (e che dal canto loro, in area persiana, erano ben liete di
essere suddite del Gran Re sasanide) quanto da quelle monofisite.
Ma nel corso del VII secolo tutto il mondo arabo fu sommerso
dall’ondata musulmana e, in massima parte, convertito all’Islam. Il
nuovo potere non mostrò particolare preferenza per le diverse
confessioni cristiane presenti nella sua compagine, salvo trattare
occasionalmente i cristiani “melkiti” con maggior severità nella misura
nella quale essi sembravano guardare ancora come al loro centro al
patriarcato costantinopolitano, quindi all’impero romano d’Oriente al
quale l’Islam aveva peraltro strappato Egitto, Siria, Armenia e parte
dell’Anatolia.
Il potere islamico Ma in linea generale i cristiani soggetti al potere islamico erano considerati come gli ebrei e gli zoroastriani ahl al Kitab (“popoli del Libro”, depositari di una Scrittura d’origine profetica) e quindi dhimmi,
“sottomessi-protetti”, autorizzati a convivere in pace con i musulmani
pur dovendo pagare certe tasse ed essendo soggetti ad alcune
restrizioni.
I due califfi musulmani che allora si dividevano l’obbedienza dei
fedeli, il sunnita abbaside di Baghdad e lo sciita fatimide del Cairo,
si disinteressarono della faccenda anche allorché, con lo “scisma
d’Oriente” del 1054, i cristiani “calcedoniani” si divisero in fedeli
alla Chiesa romana – che, autodenominatisi “cattolici”, mantennero nel
mondo arabo la denominazione di “melkiti” pur conservando tanto la
liturgia greca diffusa in tutto l’Oriente quanto gli usi disciplinari
greci ad esempio il matrimonio nel basso clero “secolare” – mentre da
allora in poi le comunità rimaste fedeli al patriarcato di
Costantinopoli furono dette “ortodosse”: entrambi, peraltro, mantennero
il greco come loro lingua liturgica, alla quale accostarono anche
l’altro. L’odierna Gaza, ad esempio, dispone di un vescovo arabo
“ortodosso”, è quindi sede di diocesi, mentre i “melkiti” (vale a dire
gli arabi cattolici di rito greco) hanno solo una parrocchia in quanto
al sede vescovile è vacante dal 1964.
Vivere in terra musulmana I cristiani d’Oriente viventi in terra musulmana, per quanto
formalmente protetti dal diritto coranico che ne sancisce però al tempo
stesso l’inferiorità giuridica, hanno vissuto – come accadde nella
penisola iberica fra VIII e XV secolo – in modo di solito tranquillo,
esercitando prevalentemente i mestieri del mercante, dell’artigiano, del
contadino e negli ultimi secoli anche qualche professione “liberale”
(molti erano medici: per quanto in quello specifico ramo i più esperti e
reputati fossero senza dubbio gli ebrei).
Ciò non toglie che, per ricorrenti periodi, essi siano stati vittime occasionali di sommosse o pogrom:
come nell’Egitto dell’inizio dell’XI secolo, quando furono perseguitati
dal califfo al-Hakim (il fondatore della setta drusa) che distrusse
anche la chiesa della Resurrezione a Gerusalemme), nella Spagna dei
secoli XI e XII secolo sotto le dinastie rigoriste degli almoravidi prima, degli almohadi
poi, o ancora in Libano e in Siria durante il secolo XIX secolo,
nonostante la protezione loro accordata dai sultani ottomani. La loro
condizione fu comunque senza dubbio migliore di quanto non fosse ad
esempio quella degli ebrei nell’Europa medievale e moderna, fino al
Sette-Ottocento, per non parlare della Russia zarista.
L’antica Ninive Mosul, sull’alto Tigri, si trova a poca distanza
dall’insediamento dell’antica Ninive, la splendida capitale dell’antico
impero assiro, ed è insieme con Aleppo una delle due principali
metropoli di quell’area che, corrispondendo appunto all’Assiria storica
(dal nome della quale proviene quello moderno di “Siria”), fu
organizzata dai califfi abbasidi come governatorato a capo del quale fu
posto un funzionario turco (atabeğ, cioè “padre dei beğ”)
a sua volta nel XII secolo fondatore di una dinastia, gli “zenqidi”,
che ebbero al loro servizio un geniale ufficiale turco, Yusuf ibn-Ayyub,
che noi conosciamo come “il Saladino” e che nella seconda metà del
secolo avrebbe unificato Siria ed Egitto e cacciato i crociati da
Gerusalemme.
I musulmani dell’area di Mosul erano e sono restati tradizionalmente
sunniti, ma non tutti sono arabi: la città è difatti anche centro di un
grande insediamento curdo e avrebbe dovuto far parte di un “Kurdistan”
che peraltro alla fine della prima guerra mondiale non fu mai fondato in
quanto gli inglesi, che sulla base di un accordo franco-britannico del
’16 occupavano quell’area, lo eressero con il nome di Iraq in regno
assegnandolo a Feisal, uno dei figli dello “sceriffo” hashemita Hussein
della Mecca, loro alleato.
Mosul, artificialmente staccata dal suo contesto siriaco, fu negata
anche ai curdi, per i quali il sultanato ottomano aveva previsto un
particolare vilayat (“governatorato”) ma che invece furono
distribuiti arbitrariamente tra Siria, Turchia, Iraq e Iran. Quanto a
Mosul, essa interessava in particolar modo agli inglesi in quanto
capitale, con la vicina Kirkuk, di un importante distretto petrolifero.
La pesante e spregiudicata politica britannica cominciò a diffondere
tra le popolazioni arabe un pregiudizio nuovo, per esse prima
sconosciuto: l’astio per gli occidentali. E, dal momento che era (e
resta) comune la confusione tra Occidente e Cristianità, l’odio
antioccidentale si andò traducendo da allora anche in odio
indiscriminatamente anticristiano.
Il regime di Saddam Hussein Il regime “baathista” iracheno imposto da Saddam Hussein
ispirato al “socialismo arabo” e quindi, come noi usiamo impropriamente
dire, “laico”, aveva tenuto a bada l’anticristianesimo dei gruppi
musulmani radicali: per l’ideologia nazionalista del “Baath”, contava
anzitutto l’essere cittadini iracheni al di là di religioni e di
confessioni.
Ma il rovesciamento di quel regime, nel 2003, ha ricondotto con
violenza in primo piano tanto la rivalità arabo-curda, quanto quella
sunnito-sciita all’interno dell’Islam e, infine, quella anticristiana
dei gruppi che adesso si richiamano al radicalismo sunnita nell’àmbito
della guerra civile che oppone il governo di Nuri al Maliki (gestito –
con paradossale esito dell’aggressione e dell’occupazione statunitense –
da sciiti che guardano con simpatia all’Iran e alla Russia, pur
restando collegati alla tutela statunitense e sostenuti dai “consiglieri
militari” inviati da Obama) ai ribelli sunniti – tanto jihadisti quanto
saddamisti (un’alleanza a sua volta paradossale) – che tra Iraq
settentrionale e orientale hanno proclamato lo “stato islamico” ed
eletto califfo il loro leader al Baghdadi, sia della situazione
determinatasi in alcuni paesi africani. Vediamo un po’ più da vicino
questi due casi.
La restaurazione del califfato La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin
– vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di
confine fra Turchia, Siria e Iraq, è stata diffusa alla fine del giugno
2014.
I “jihadisti” che hanno la loro roccaforte nelle province sunnite
dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i curdi, sunniti
anch’essi, ma non arabi) vi hanno fondato una Dawla Islamiya fi Iraq wa Shark, espressione grosso modo traducibile in inglese come Islamic State of Iraq and Levant
e da allora conosciuto dai media occidentali con le incerte sigle di
Isil o Isis (a seconda che vi si privilegi al parola inglese Levant o
quella araba Shark).
Il “Levante” iracheno corrisponde, piuttosto, all’area nordorientale,
con i centri di Mosul (occupata nei primi di giugno dai jihadisti),
Erbil (in mano alle forze governative del governo di Bagdad) e Kirkuk
(difesa dalle milizie curde peshmerga).
Mosul e Kirkuk sono importanti centri di estrazione petrolifera. I
miliziani jihadisti, che nella prima metà di giugno avevano occupato
anche Tikrit e che, presa Mosul la quale non è lontana né dal confine
siriano né da quello turco, minacciano anche la Siria e la Turchia,
hanno quindi unilateralmente fondato una vera e propria Dawla Islamiyya (cioè un Islamic State, IS, definito tout court tale), che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso: in altri termini, hanno fondato un califfato.
Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’Islam, Abu
Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie
A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al Baghdadi, appunto leader
dell’IS.
Il nuovo volto dell’Islam Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al Adnani, ha
sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto
nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo
la “democrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama.
Alcuni “esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo del jihad
musulmano dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato
potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino e mediorientali e
rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Il
che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella
galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la
denominazione, appunto, di al Qaeda, e che se ne disputano accanitamente
la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue
espressioni più coerenti e meno aleatorie.
I rapporti del governo al Maliki con Usa, Russia, Siria e Iran Dal canto suo il governo ufficiale iracheno, guidato da Nuri al
Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta
nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la
loro aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, ma è espressione
delle comunità irachene sciite che in quanto tali guardano con simpatia
alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a
recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con
l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con
trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato
dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli
consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS,
mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raid contro gli uomini
del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo
di al Maliki di alcuni droni.
È ovvio che lo sciita al Maliki non sia scontento di questo appoggio
russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che
l’esercito dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti
degli emirati del Golfo. La situazione, che allarma per motivi
differenti i governi di Ankara, di Damasco e di Bagdad i quali
d’altronde non sono affatto in buoni rapporti reciproci, è complicata
dalla posizione di al Nusra, il più forte movimento jihadista siriano,
che sta lottando nel suo paese contro il governo di Assad ma che ha
creato faticosamente un sistema di alleanze locali che rischia di
saltare a causa della strategia “globalista” del califfato iracheno il
quale dal canto suo aspira a un peraltro improbabile riconoscimento più
ampio.
La conquista di Mosul da parte delle milizie jihadiste dell’Iraq
nordorientale ha rappresentato un evento molto grave: non solo in quanto
quella città ha una determinante importanza sul piano dell’estrazione
petrolifera, ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta città di
tradizione sunnita, abitata sia da arabi sia da curdi e sede di una
fiorente comunità cristiana “caldea” (vale a dire cattolica, del tipo
che altrove appunto si definirebbe “melkita”, ma che usa nella liturgia
l’antico aramaico), che nel 2003 – all’atto cioè dell’aggressione
statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein – contava ben 35.000
fedeli, mentre nel decennio successivo è scesa a 3.000 (diminuendo cioè
di oltre il 90%).
Va detto che in Iraq, accanto alla Chiesa “caldea” che aderisce al
cattolicesimo, esisteva ed esiste una Chiesa detta “assira”, di
confessione monofisita.
A Mosul i cristiani hanno abbandonato le loro case I cristiani locali hanno abbandonato tutti le loro case di
Mosul, ma sono stati fatti oggetto da parte degli jihadisti di furti e
di violenze e minacciati di morte in caso intendessero tornare nella
loro terra, ormai dichiarata totalmente islamica.
Il 21 luglio 2014, a Bagdad, è stata celebrata una messa per chiedere
a Dio di proteggere le comunità cristiane profughe e minacciate: vi
hanno preso parte anche molti musulmani (sciiti in maggioranza; ma anche
sunniti) che inalberavano cartelli e indossavano T-shirt recanti la
scritta di solidarietà “Sono un iracheno, sono un cristiano”.
D’altronde, il fenomeno dell’esodo cristiano si sta producendo dappertutto nel Vicino e Medio Oriente.
A Gaza i cristiani palestinesi visti come traditori A Gaza, dove esiste un’ottima scuola cristiana guidata da un
sacerdote argentino, padre Jorge Fernández, i cristiani locali (tra
cattolici e greco-ortodossi) erano 3000 nel 2009, ridotti nel 2014 a
1300. Hamas è ormai riuscita a fare della causa nazionale palestinese,
alla quale i cristiani locali aderivano in quanto arabi ben consci della
loro identità etnica, una causa musulmana: e non è quindi raro che i
cristiani locali, che gli israeliani considerano pericolosi in quanto
palestinesi, siano visti ormai come “traditori” e come “nemici” dai loro
compatrioti musulmani.
È questo un aspetto particolarmente ingiusto e doloroso dell’intera
questione riguardante i cristiani d’Oriente, ai quali troppo spesso
viene fatto carico di colpe non loro, bensì originate dalle antiche e
nuove violenze poste in atto dal mondo occidentale, che dal canto suo
non è ormai nella sua maggioranza più, se non formalmente e
“sociologicamente”, cristiano.
Dal dibattito interno sui rapporti col socialismo europeo,
all'ostruzionismo non contro la riforma ma contro il Pd. Così Vendola ha
scelto l'incompatibilità con Renzi.
I giochi si sono scoperti appena si è aperto uno spiraglio per
le modifiche possibili. Ed è uscita fuori una verità che francamente era
evidente da tempo: né Sel né tanto meno Cinquestelle hanno il minimo
interesse al merito della riforma della politica e delle istituzioni. La
battaglia di palazzo Madama ha esclusivamente l’obiettivo politico
dell’indebolimento di Matteo Renzi, del governo e del Pd. E quindi avrà
conseguenze innanzi tutto politiche (considerando che, con qualche
giorno o qualche settimana di ritardo, il destino del senato elettivo è
comunque segnato): la fine di qualsiasi ipotesi di alleanze con i
democratici.
Due cose, tra le tante, si sono dette e scritte all’indomani delle
elezioni europee. Una si è realizzata in pieno: Renzi è ripartito da
quel 40,8 per cento convinto di avere una responsabilità e un urgenza
nuove, un mandato stringente a realizzare gli impegni assunti
sull’ammodernamento del sistema istituzionale.
L’altra previsione del dopo-europee si sta confermando in queste ore:
gli sconfitti nella prova elettorale avrebbero cercato appena possibile
la rivincita in un parlamento dove i numeri sono ancora quelli del
febbraio 2013.
Questo e non altro è il senso dell’ostruzionismo contro la riforma
Boschi. La strada l’hanno aperta i cosidetti dissidenti del Pd, creando
il clima d’opinione nel quale può circolare (senza suscitare particolare
allarme sociale) la paradossale parola d’ordine del colpo di stato. Ma
Chiti, per quanto possa sbagliare, è persona seria. E quando ieri su sua
iniziativa (dopo la lettera di Renzi) sembrava riaprirsi lo spazio del
dialogo e del miglioramento dei testi, ciò che è rimasto sul terreno,
ben visibile, è appunto il nucleo di un’opposizione non alle riforme
bensì ai nuovi equilibri politici e alle speranze che hanno suscitato
nel paese.
Alla luce dell’irrigidimento vendoliano si capiscono meglio le
ragioni della scissione che ha colpito quel partito. Da quando dentro
Sel si dibatteva sui rapporti col socialismo europeo, l’involuzione è
clamorosa. Troppo netta per non causare conseguenze. Il profilo di un
partito che voleva interpretare «una sinistra di governo» è tornato a
somigliare ai gruppi extraparlamentari di una volta, che del resto sono
la provenienza di alcuni dirigenti: un’entità politica il cui spazio
elettorale, stante M5S, è da verificare; ma che appare totalmente
inconciliabile con il progetto del Pd per l’Italia.
Il caso. Il boss Alessandro D’Ambrogio
è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine
gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa:
“Ancora una sosta anomala”
Un uomo di mezza età, con la casacca
della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla:
«Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si
ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di
Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri
della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi
capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è,
rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis”
del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli
di Ballarò.
Questo accadeva domenica, intorno alle
19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia
di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua
della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano
solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si
infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove
la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i
summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i
carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche
parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta
Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante
la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di
Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella
sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di
Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone
e Borsellino il giorno della loro laurea.
È questa l’ultima cartolina di
Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia
e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due
anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna
con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver
riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto
e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli
onore.
I tre fratelli del padrino sono tutti
lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa
più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e
Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai
stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la
processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il
corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i
giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio
non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati
di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco
D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende.
«È stata una fermata anomala»,
ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore.
«Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la
processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il
santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito,
sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna
ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli
baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di
devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la
processione è andata avanti».
Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore
le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la
preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di
questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più
gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è
accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare.
«Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è
ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad
essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla
procura antimafia.
«Da qualche tempo, la Curia si sta
muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo
diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei
componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi
rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a
Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo.
Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune
processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era
addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime
Sante, che organizza una delle più importanti processioni del
Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla
vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il
quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata:
le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una
faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto
la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e
dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo
un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una
brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato
severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato
per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.
Alessandro D’Ambrogio, invece,
nessuno l’ha ancora sospeso dalla confraternita di Ballarò. Anche
il suo vice, Tonino Seranella, è un devoto speciale della
processione di fine luglio, pure lui due anni fa spingeva la vara per
le strade del popolare mercato palermitano. E le mamme del quartiere
facevano a gara per affidare il loro bambino a D’Ambrogio. Era il
boss di Ballarò che offriva i piccoli al bacio della madonna del
Carmine.
Ecco la scena: i leader dei tre
maggiori partiti, e non solo, messi di fronte a contestazioni, in
parte aperte e in parte coperte, del loro ruolo; le riforme
universalmente invocate, ma molte divisioni e sottodivisioni in
relazione al volto che queste dovrebbero assumere; la rivendicazione
in materia avanzata da dissidenti, collocati trasversalmente, del
diritto di ciascun parlamentare di opporsi per motivi di “coscienza”
ai deliberati delle rispettive maggioranze di partito in quanto
giudicati persino pericolosi per la stessa democrazia.
Circa la disponibilità universale a
varare le riforme, teniamola per quel che vale: niente; poiché è
come la conclamata volontà che nessuno vorrebbe negare di perseguire
il bene pubblico. In concreto ciò che si osserva sono acuti
contrasti. Condizione in verità normale secondo la dialettica
democratica; sennonché il problema è che i contrasti dalle
conseguenze più rilevanti sono dentro il Pd e Fi, dove emergono
critiche intransigenti da parte di bellicose minoranze nei confronti
della linea dei leader e delle maggioranze che li seguono (ma ora,
per quanto riguarda Fi, dopo la sentenza liberatoria di Milano
occorre attendere di vedere in che misura il politicamente
ringiovanito Berlusconi sarà in grado di mettere in riga l’ala
protestante dei Fitto e compagni). Anche tra i 5 Stelle le nuvole
nere non sono poche e il Grillo parlante ha i suoi sudditi riottosi.
La sfida al leader si presenta
rilevante soprattutto nel Pd, dove Renzi si trova a misurarsi con uno
stato di cose palesemente contraddittorio. Infatti, da un lato egli è
fortissimo: per la clamorosa vittoria conseguita alle Primarie, il
successo eclatante alle elezioni europee e il consenso dimostratogli
da eminenti partner dell’Ue; dall’altro però è non poco
indebolito dal fatto che tra il Pd rispecchiato nei suoi gruppi
parlamentari — espressioni di una precedente stagione ma in grado
di far valere il potere decisionale che quella stagione ha loro
consegnato — e il partito degli iscritti e degli elettori
conquistati dal giovane leader si è interposta un’ombra profonda.
In settori influenti dei gruppi e nelle minoranze del Pd non viene
meno la resistenza a Renzi, un segretario e un presidente del
Consiglio non amato, mal sopportato, ma molto temuto, che si vuole
contrastare tanto nella gestione nel partito quanto nel disegno delle
riforme. Si oppone resistenza a che il Pd diventi il “partito di
Renzi”, su cui vengono fatte gravare le accuse ogni giorno ripetute
di neoberlusconismo e decisionismo autoritario. Alle quali Renzi
risponde che coloro i quali gli remano contro sono gufi, e anche,
quando perde maldestramente le staffe, persone timorose di un nuovo
che potrebbe sbalzarli dalle poltrone. Serpeggia, insomma, nei
maggiori partiti in particolare e in generale nell’intero arco
politico un malessere che mette in luce squilibri tutt’altro che di
secondaria importanza.
Ma veniamo alle rivendicazioni dei
parlamentari che affermano il diritto (Chiti, Mineo, Minzolini e
altri) di opporre il dissenso che sale dalla loro “coscienza” —
in difesa dello spirito autentico della Costituzione e della
democrazia — rispetto all’orientamento prevalente nei propri
partiti. È una posizione ineccepibile. Un parlamentare non ha
vincolo di mandato, è e ha da essere e rimanere libero di obbedire
alla sua coscienza. Sennonché un uomo di partito sceglie in quanto
tale di operare in un organismo che può agire con efficacia alla
condizione che entro di esso prevalga il principio di maggioranza, il
quale è il fondamento di una democrazia che non sia soltanto libertà
di espressione ma anche da ultimo la capacità di far prevalere un
progetto sull’altro. Se, dunque, la minoranza si convince che la
maggioranza — caso di estrema gravità — diventi portatrice di
progetti antidemocratici, allora essa ha il diritto-dovere di negare
il proprio consenso. Ma è chiaro, andando al sodo delle
implicazioni, che quanto dettato dalla coscienza politicamente non ha
altro significato se non la messa in atto di una linea politica
alternativa. Affermare: io ho una coscienza pura e democratica e per
questo mi oppongo, suggerisce di necessità che gli altri,
consapevolmente o inconsapevolmente, coscienza e spirito democratico
non abbiano. Tutto ciò pone o quanto meno dovrebbe porre ai
dissidenti l’interrogativo circa la natura e il senso dei loro
rapporti con i partiti cui appartengono.
È presumibile che assisteremo a
scomposizioni e ricomposizioni nel nostro sistema politico tali da
darci una mappa politica segnata da rimescolamenti e rimodellamenti.
Mappa la quale non si delinea ancora, ma che — dato che i partiti
sono agitati da fibrillazioni e appaiono organismi dai collanti
incerti, divenuti per aspetti assai rilevanti decisamente ambigui —
pare essere insieme inevitabile e augurabile.
Il caso dell’insegnante lasciata a
casa da una scuola religiosa trentina per non essere disposta a
nascondere la propria convivenza omosessuale pone una questione di
difficile soluzione: prevale la tutela della libertà morale e
sessuale dell’insegnante, o la tutela della libertà religiosa
della scuola? Il problema nasce dal fatto che non può esserci
vera libertà politica o religiosa per tutti se non viene garantita
anche la libertà delle associazioni politiche o religiose di
selezionare il proprio personale secondo criteri di coerenza con le
rispettive idee. Questo è il motivo per cui in tutti gli ordinamenti
democratici viene protetta la libertà di pensiero e di attività
politica delle persone, ma al tempo stesso anche la libertà dei
partiti di escludere dai propri organici chi ha un orientamento
politico diverso; la libertà religiosa e morale delle persone, ma al
tempo stesso la libertà delle Chiese e associazioni religiose di
esigere l’adesione al proprio credo da chi da esse dipende. Non
ci sarebbe vera libertà di opinione circa temi etici caldi come
quello dell’aborto o dell’eutanasia se si vietasse
all’Associazione Luca Coscioni di escludere Paola Binetti dal
novero dei propri collaboratori, né se si vietasse a Radio Maria di
fare l’esame di catechismo ai propri speaker. A patto, ovviamente,
che la «causa» sia lecita, cioè non sia soggetta a uno specifico
divieto. Per esempio, il decreto legge n. 122/1993 commina una
sanzione penale per chi promuova idee razziste o xenofobe; e vieta la
costituzione di associazioni che abbiano tale finalità. Ora,
nel caso da cui siamo partiti la «causa» che la scuola religiosa
trentina intende sostenere comporta l’affermazione secondo cui
l’esercizio dell’omosessualità costituisce un male, un
comportamento immorale, «contro natura». L’opinione di moltissimi
italiani, tra i quali chi scrive, e probabilmente anche di papa
Francesco, è che questa affermazione sia sbagliata e contraria allo
spirito del Vangelo; una cosa, però, è certa: oggi in Italia
sostenere questa tesi non è vietato. Anche il disegno di legge n.
1052/2013, approvato dalla Camera dei deputati nel novembre scorso e
attualmente all’esame del Senato, che si propone di prevenire e
reprimere le manifestazioni di omofobia, esclude dal divieto «la
libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni
riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino
all’odio o alla violenza». Tuttavia possiamo affermare con
altrettanta certezza che la discriminazione ai danni di un lavoratore
riferita al suo orientamento sessuale oggi in Italia è, in linea
generale, positivamente vietata: lo stabilisce il secondo comma
dell’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, a seguito di
un’integrazione apportata nel 2003. E una recente raccomandazione
del Consiglio dei ministri Ue invita gli Stati membri a porre in atto
misure efficaci non solo per vietare, ma anche per prevenire la
discriminazione omofobica. Così stando le cose, tre scuole di
pensiero si confrontano: quella secondo cui, quando è in gioco una
prerogativa essenziale della persona qual è l’esercizio della sua
sessualità, la tutela della sua libertà morale deve prevalere in
ogni caso sulla tutela della libertà della scuola privata; quella
intermedia, sostenuta da Nadia Urbinati su Repubblica di mercoledì
scorso e diffusamente condivisa, secondo cui lo Stato può
subordinare il sostegno finanziario al rispetto da parte della scuola
privata del divieto generale di discriminazione; infine quella
secondo cui la libertà di pensiero e di religione sarebbe lesa anche
dal condizionare il finanziamento pubblico a una scuola religiosa al
rispetto da parte sua del divieto di discriminazione. Quest’ultima
linea di pensiero corrisponde di fatto al modo in cui vanno le cose
in Italia, dove è accaduto più volte che scuole e atenei religiosi
abbiano licenziato per motivi ideologici pur beneficiando di
finanziamenti pubblici. La soluzione intermedia parrebbe a prima
vista la più equa. Ma per sposarla occorre superare due argomenti
molto forti a sostegno, rispettivamente, delle due tesi estreme. Il
primo è quello di chi osserva che negare alla scuola A, perché
sostiene una sua ideologia, il finanziamento pubblico concesso invece
alla scuola B che aderisce a quella statuale, non è poi così
diverso dal mettere fuori legge la prima e, in ultima analisi,
limitare la libertà ideologica di entrambe. Drammaticamente
opposto è l’argomento secondo cui negare a una persona, sia pure
solo nell’ambito di un rapporto di lavoro, la libertà di
manifestare il proprio orientamento sessuale menoma la sua esistenza
più intimamente di quanto non faccia una riduzione della sua libertà
di manifestazione del pensiero: una mutilazione che neppure la tutela
della libertà di una comunità religiosa, con o senza finanziamento
pubblico, potrebbe giustificare. La questione è aperta. La
soluzione incerta come poche.
Ora più che mai, mentre si
affilano le armi, tra ostruzionismo e tagliole, per la battaglia
parlamentare sulle riforme questo libro può essere letto come «un
argomentato sostegno a chi sta provando a cambiare verso». È così
che Salvatore Vassallo definisce il suo ultimo lavoro, Liberiamo la
politica (il Mulino, 192 pp.). L’ex deputato pd, professore di
Scienza politica che ha presieduto la commissione per lo statuto del
partito, espone una ricetta che incrocia in più punti l’agenda
Renzi. L’orizzonte è quello di una «normale democrazia
dell’alternanza» e della competizione tra due forti partiti a
vocazione maggioritaria. Per raggiungerlo servono partiti
caratterizzati da una leadership forte e contendibile, a differenza
del modello Pci, dove i «dirigenti autorevoli» lo erano a vita, o
Dc, con «l’oligarchia dei capicorrente». Sono necessarie una
legge elettorale e un’architettura istituzionale che permettano ai
cittadini la scelta di deputati e premier (l’ottimo sarebbero i
collegi uninominali; ma dato che l’ottimo è nemico del bene
«l’Italicum è un compromesso ragionevole»); la riforma del
bicameralismo e un Parlamento che lavori più in commissione che in
Aula; un governo più forte, con premier scelti dai cittadini e con
più poteri. Ricco di approfondimenti comparativi, con le altre
democrazie, e storici, dalla Prima alla Seconda Repubblica, il lavoro
di Vassallo lascia affiorare la passione del militante. Riflettendo,
ad esempio, sulle occasioni mancate della scorsa legislatura, quando
era deputato. Oppure riguardo la decisione della Consulta sul
Porcellum: «Se il veleno proporzionale iniettato dai giudici della
Corte costituzionale entrasse in circolo, allora sì che, di fronte
alla moltiplicazione dei partiti e a un Parlamento incapace di
decidere, molti comincerebbero a dire che è meglio liberarsi della
politica democratica, invece di liberarla».
Fino a un paio di anni fa le vicende
giudiziarie di Berlusconi radicalizzavano gli elettori: i
berlusconiani si indignavano per ciò che veniva considerato un
complotto della magistratura politicizzata ai danni del loro leader e
gli antiberlusconiani per i reati di cui il Cavaliere veniva
accusato. Questo copione, durato quasi vent’anni, ha subito una
battuta d’arresto un anno fa, in occasione della sentenza
definitiva di condanna per i diritti Mediaset, a conferma del
cambiamento del clima sociale e politico dopo il voto del 2013: con
l’affermazione dell’M5S si è creato uno scenario tripolare che
ha sostituito quello bipolare della Seconda repubblica; il Pdl ha
subito un tracollo perdendo 6,3 milioni di elettori rispetto al 2008
e il perdurare della crisi economica ha modificato le priorità dei
cittadini. Tutto ciò spiegava la mancata mobilitazione degli
elettori del Pdl e la loro volontà di continuare a sostenere il
governo di larghe intese guidato da Enrico Letta nonostante la
condanna di Berlusconi e le conseguenti minacce di uscita dalla
maggioranza. All’indomani della sentenza d’appello del processo
Ruby, che ha assolto Berlusconi ribaltando il verdetto di primo
grado, si ha la conferma di questo cambiamento del clima. Con poche
eccezioni, non ci sono state reazioni di indignazione o di
trionfalismo da parte degli elettori: la maggior parte degli italiani
(34%) ritiene che la sentenza sia una libera decisione dei magistrati
e come tale non vada discussa ma accettata; il 31% pensa che sia una
sentenza sbagliata e il 25%, al contrario, la considera giusta. Tra
gli elettori del Pd il 46% ritiene che le sentenze non vadano
discusse, il 41% giudica la sentenza sbagliata e quasi un elettore su
dieci è d’accordo con l’assoluzione. Tra gli elettori di Forza
Italia quattro su cinque plaudono alla sentenza e, al contrario, il
7% la giudica sbagliata. Si è quindi fortemente attenuato il
giustizialismo tra gli elettori pd (la cui composizione è molto
cambiata in occasione delle Europee) e tra quelli di FI fa capolino
qualche dubbio sui comportamenti del loro leader. Solo un elettore su
tre ritiene che con la sentenza di assoluzione Berlusconi possa
tornare ad essere il leader del centrodestra mentre prevale
largamente (63%) l’idea che sia ormai superato. Tra gli elettori di
FI una minoranza non trascurabile (22%) è dello stesso parere. Lo
scetticismo si spiega non tanto in termini di limitata agibilità
politica di un leader che sta scontando una condanna (che finora non
gli ha impedito di svolgere il proprio ruolo, come dimostra il patto
del Nazareno) quanto in termini di ricambio generazionale. Berlusconi
rimane difficilmente sostituibile, ma appartiene ad una stagione
politica che secondo molti si è chiusa. Ne è una conferma anche la
perplessità che accompagna l’ipotesi di definizione di una nuova
alleanza tra Forza Italia e le altre formazioni del centrodestra:
solo il 33% ritiene che dopo l’assoluzione di Berlusconi questa
possibilità sia realistica mentre il 59% pensa che sia difficile
alleare partiti tanto diversi. L’elettorato di FI è molto diviso
in proposito: gli ottimisti rappresentano il 50% e i pessimisti il
46%. Tra gli elettori del Ncd e i centristi il 57% non sembra credere
a un’alleanza sulla cui composizione, peraltro, le opinioni sono
tutt’altro che univoche: il 49% ritiene che per il centrodestra
sarebbe più opportuno unire le formazioni più moderate, escludendo
quelle che hanno posizioni più estremistiche, mentre per il 41%
sarebbe più utile aggregare tutte le forze: FI, Ncd, Fratelli
d’Italia e Lega Nord. Nell’elettorato berlusconiano quest’ultima
è l’opinione prevalente (55%), alla quale si contrappone una
consistente minoranza (38%) che auspica un accordo limitato alle sole
forze moderate. La fase di difficoltà del centrodestra è
testimoniata dai risultati elettorali, prima ancora che dai sondaggi:
alle Europee i quattro partiti principali che lo compongono hanno
ottenuto 8,5 milioni di voti (contro i circa 14 del 2009) e
rappresentano il 17% degli elettori. Per risalire la china il tema
dell’alleanza e quello della leadership appaiono inderogabili
Un tetto puro e semplice agli stipendi
è la soluzione più facile e diretta. Ma forse non la cura più
efficace per eliminare certi compensi astronomicamente ingiusti corsi
nelle tasche degli alti burocrati per troppo tempo e insieme far
trionfare la meritocrazia nella Pubblica amministrazione. Tanto per
fare un esempio il tetto non ha effetti su retribuzioni magari appena
più modeste, ma certo altrettanto ingiustificate. C’è quindi da
domandarsi se non funzioni meglio, in funzione del merito, un sistema
di retribuzioni fortemente variabili sulla base di valutazioni serie,
rigorose e soprattutto indipendenti. Fatta questa doverosa premessa,
è davvero difficile contraddire Matteo Renzi sul fatto che 240 mila
euro l’anno non siano un parametro più che adeguato per le buste
paga di Camera e Senato. Dove la cosiddetta «autodichìa», ovvero
quel principio secondo il quale gli organi costituzionali gestiscono
in piena autonomia e senza controlli esterni le proprie risorse, ha
prodotto situazioni di privilegio inenarrabili e
anacronistiche. Legate a folli automatismi, come la
sopravvivenza di una specie di generosissima scala mobile e un
meccanismo di scatti capace di far salire anche del 400 per cento lo
stipendio netto dall’assunzione alla pensione, le retribuzioni dei
dipendenti avevano raggiunto livelli assolutamente senza senso,
mandando letteralmente in orbita le spese di Montecitorio e Palazzo
Madama. Per non parlare di regimi pensionistici che non hanno pari
nel mondo del lavoro pubblico e privato. Il tutto grazie ad accordi
scellerati con un pulviscolo di sindacati interni, costantemente
protesi alla difesa degli interessi corporativi. Più dei valori
assoluti, dicono tutto certi rapporti. Lo stipendio medio di un
dipendente della Camera e del Senato, sulle basi dei rispettivi
bilanci, è superiore a 150 mila euro lordi l’anno (la paga
dell’amministratore delegato di un’azienda privata), mentre
quello del loro collega della Camera dei comuni britannica si aggira
intorno ai 40 mila euro. Quattro a uno. Le segretissime tabelle
retributive del Senato informavano nel 2008 che la retribuzione di un
commesso (il livello inferiore della scala) al massimo livello della
carriera poteva raggiungere 159 mila euro lordi l’anno. Mentre
quella di uno stenografo che avesse completato il quarantesimo anno
di attività era in grado di toccare 289 mila euro: tremila euro in
meno dell’appannaggio annuale del Re di Spagna, o 70 mila in più
del compenso del segretario generale dell’Onu, se preferite. Fece
scalpore, nel 2006, la rivelazione dell’Espresso secondo cui il
segretario generale del Senato Antonio Malaschini percepiva 485 mila
euro l’anno: quando è uscito da Palazzo Madama, pochi anni dopo,
viaggiava intorno ai 550 mila. Nel 2012, da sottosegretario alla
presidenza del governo Monti, ha reso noto l’ammontare della sua
pensione parlamentare: 519 mila euro lordi l’anno. Quasi il doppio
dell’indennità del presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama. L’esempio delle Camere ha prodotto a cascata guasti
anche in molte Regioni. Dove gli apparati politici, rivendicando la
stessa «autodichìa» degli organi costituzionali, hanno dilagato
con modalità in qualche caso decisamente peggiori. Stipendi
stellari, assunzioni clientelari, strutture ipertrofiche e
inefficienti. Come documenta il rapporto sui costi della politica
preparato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon per il
commissario alla spending review Carlo Cottarelli, i venti Consigli
regionali italiani spendevano per il personale nel 2012 quasi 360
milioni di euro. Somma paragonabile, considerando il numero degli
eletti, a quella delle due Camere. Nella sola Sicilia, con il
governatore Rosario Crocetta che ha denunciato scandalizzato che la
retribuzione del segretario generale dell’Assemblea regionale
sarebbe addirittura più alta di quelle dei suoi colleghi di
Montecitorio e Palazzo Madama, il personale consiliare costa la
bellezza di 86,6 milioni: contro i 20,8 della Lombardia, Regione che
ha una popolazione doppia. Cose che se erano già inaccettabili
anni fa, quando l’economia arrancava ma il Paese galleggiava, oggi
lo sono ancora di più. Un insulto alla realtà di una disoccupazione
a livelli record da quarant’anni, di un Prodotto interno lordo
crollato dal 10 per cento dall’inizio della crisi, di una povertà
che cresce a livelli vertiginosi, di una speranza per i giovani di
trovare lavoro semplicemente inesistente. Quella vecchia
impalcatura di privilegi appartiene a un mondo che ormai non esiste
più. Va solo smantellata. E chi si ostina ancora a difenderla,
sappia che difende ormai l’indifendibile.
Il governo ha aperto il semestre
europeo con una conferenza sui progressi delle donne nei governing
boards : la percentuale femminile nei Consigli italiani è oggi al
22% dal 6% di prima della Legge 120/2011. La direttiva europea 2012 e
la Legge Mosca-Golfo hanno avuto un impatto formidabile, ma il
successo delle donne istruite al vertice è in contrasto brutale con
lo status sociale della popolazione femminile italiana e la lentezza
del processo di riforma del mercato del lavoro rispetto alle promesse
del governo e alle aspettative dell’Europa. Il tasso di
attività al 53,9% è il più basso dell’Unione Europea, simile
alla Siria; l’occupazione al 46,5% è 10 punti sotto la media Ue27
e la fertilità è all’1,42. Un quadro scoraggiante, che misura
quanta ricchezza venga persa a causa dell’assenza delle donne dal
mercato del lavoro. Per capire queste anomalie bisogna andare oltre
le leggi dell’economia, al cuore delle norme sociali e culturali
che definiscono il ruolo della donna e del lavoro in Italia. Una
prima misura è data dall’aumento dei casi di femminicidio: l’Onu
ci considera un caso problematico per l’inefficacia della legge
sullo stalking. Il centro antiviolenza SVSeD della Clinica
Mangiagalli di Milano ha accolto 656 vittime nel 2012, 746 nel 2013 e
433 da inizio anno, nel 36,05% per mano del marito o convivente.
Persino il monitoraggio di questa emergenza quotidiana è carente:
l’unica rilevazione nazionale è l’indagine Istat 2006, con il
2013-2014 in corso. All’organizzazione non governativa Intervita
dobbiamo l’unico studio sui costi della violenza: 16,7 miliardi nel
solo 2012, anno in cui 6,3 milioni sono stati spesi in prevenzione e
124 donne hanno perso la vita — il 25% più del 2011. Oltre 30
donne su 100 hanno subito violenza una volta nella vita; solo 18
l’hanno considerata un reato. Per spiegare questi dati occorre
capire cosa determini il potere contrattuale delle donne.
L’economista Gary Becker vedeva la famiglia come un’unità
produttiva dove coniugi complementari dividono il surplus in base a
produttività individuali e vantaggi comparati. La rivoluzione
femminista ha spostato l’accento sull’eguaglianza anziché sulla
specializzazione di genere e la teoria economica si è concentrata
sul potere contrattuale: uomo e donna interagiscono fino alla soglia
dello scambio di minacce. Perché esso risulti credibile, deve avere
come fondamento l’indipendenza economica: la minaccia di divorzio
da una donna priva di mezzi, ad esempio, non è credibile. Le
politiche della famiglia aumentano l’occupazione femminile, ma le
donne s’indirizzano ancora verso settori meno tecnici, con minori
prospettive di reddito. Inoltre, il loro potere contrattuale è
influenzato da convenzioni sociali. Le donne che non lavorano, quando
entrano nel matrimonio o nel rapporto di coppia, finiscono per
tornare a ruoli ancestrali. In contesti dove la condizione di donna
divorziata o sola è marchiata da uno stigma sociale, il matrimonio o
la convivenza diventano irreversibili e rallentano la fuga da unioni
segnate da violenza. Politiche sociali più efficaci sono
possibili. Nonostante gli alti livelli d’istruzione — è donna il
60% dei laureati — meno del 50% lavora. L’istruzione
universitaria in Italia è sussidiata dallo Stato: donne che si
laureano ed escono dal mercato per sostenere la famiglia bruciano
risorse preziose per se stesse e la collettività. La scarsa presenza
femminile sul mercato è però anche una questione di cultura
dell’offerta. È necessario incentivare le donne a conservare la
propria identità lavorativa, soprattutto in una crisi come questa.
Si può pensare a un sistema di incentivi tale per cui i sussidi
universitari, in forma di prestiti, debbano essere restituiti solo se
chi li riceve decidesse di uscire volontariamente dalla forza lavoro
per stare a casa. Un’altra via per aumentare il potere
contrattuale femminile è trasformare le convenzioni sociali che
regolano la cura della famiglia, rendendole più egualitarie. In
Norvegia il congedo parentale è diviso equamente tra donne e uomini
ed è obbligatorio per entrambi; in Italia la legge obbliga gli
uomini a un solo giorno nei primi 5 mesi di vita del neonato. Una
parità di genere radicata nel profondo dei comportamenti significa
non solo promuovere donne con istruzione superiore a salire al
vertice, ma anche più responsabilità verso l’intera popolazione
femminile italiana, ancora priva di una coscienza compiuta della
propria indipendenza economica.