FEDERICO RAMPINI
La Repubblica - 30/5/2014
L’economista francese, studioso delle
diseguaglianze, è oggetto di accuse dagli ultras neoliberisti. Lui
si difende e contrattacca
Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da
abbattere. L’Internazionale neoliberista si mobilita per demolire
un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino
all’altroieri. Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli
organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo
di attacchi contro lo studioso parigino, “colpevole” di aver
messo le diseguaglianze sociali al centro dell’attenzione nella
comunità scientifica.
Il Financial Times ha messo al lavoro
per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro
missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il
monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel
capitalismo degli ultimi due secoli. Gli attacchi pubblicati dal
Financial Times — e rintuzzati dall’economista francese con una
risposta molto dettagliata, ripres a dal New York Times — lasciano
interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle
accuse lasciano intuire ben altro; l’accanimento contro Piketty
sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce
scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. Il nucleo
sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è
stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione
francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di
relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi
sociali nel XX secolo (compreso il trentennio “glorioso” dopo la
seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent’anni le
disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. Anche perché
una oligarchia di privilegiati — in particolare i top manager —
hanno “fatto secessione” dal resto della società, conquistandosi
il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con
la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché
individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché
dimostra che queste non sono affatto inevitabili.
Gli “errori” che il Financial Times
pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il
quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare
statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del
1908; oppure contesta alcune stime sul “differenziale di mortalità”
in Francia. La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che
il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più
di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti
di Berkeley, California. Il libro viene accompagnato da sterminate
appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la
lettura. La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c’è
dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si
è imposto come un fenomeno da star-system che non ha precedenti
nella “scienza triste” (come viene definita l’economia):
invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa
Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York,
infine da Harvard. Il suo libro è in vetta alle classifiche negli
Stati Uniti.
Ma l’ostilità verso Piketty ha
motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli
ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante
matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of
Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile:
voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in
Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la
loro “deriva matematica” (modelli sempre più complessi e sempre
meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti
conflitti d’interessi. Quest’ultima accusa venne lanciata, a
livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con
nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze
per i big di Wall Street, l’industria petrolifera, ecc.
Il Financial Times è un ottimo
giornale, ma non ha mai preso le distanze dall’ideologia
neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato
è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi
editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per
demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e
coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica
neoclassica e liberale degli ultimi trent’anni. In questo il
Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento
omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza
colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche.
Piketty ironizza sul fatto che «secondo
il Financial Times l’Inghilterra di oggi sarebbe una società più
egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima
redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che
contraddice l’evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune.
Un altro economista controcorrente, l’australiano David Gruen, ha
descritto in questi termini il comportamento dell’establishment
neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come
se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l’iceberg,
tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro,
fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a
disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza
iceberg». Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt,
ricordava quel che fu l’austerity del dopoguerra: la ricchezza e il
reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità
progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del
patrimonio nazionale detenuta dall’1% dei più ricchi era scesa
brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza
redistribuita è un’operazione “livellatrice” di rara potenza.
Ben diversa dal segno sociale dell’austerity di oggi. Tutto questo
accadde in un’economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il
boom degli anni Sessanta. Piketty risulta insopportabile alle
poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista,
non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo
meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito.