lunedì 17 marzo 2014

Il Cavaliere e Alfano nella morsa del premier.


Corriere della Sera del 15/03/14
Francesco Verderami

Uno, per mantenere il primato del centrodestra, deve intanto occhieggiare al leader del centrosinistra. L’altro, per costruire un nuovo centrodestra, deve intanto stare al governo con il leader del centrosinistra. Berlusconi e Alfano sembrano i capponi di Renzi, che al momento ritiene di averli in pugno.
E mentre Berlusconi e Alfano sono intenti a beccarsi — «come accade troppo sovente tra compagni di sventura» — Renzi annuncia di voler conquistare il loro elettorato «alle prossime Politiche». È da vedere se ci riuscirà, ma è chiaro che già le Europee sono diventate per il Cavaliere e il suo ex delfino uno spartiacque, se è vero che il capo di Forza Italia arriva a sfidare la legge chiedendo di potersi candidare pur di ravvivare lo spirito d’appartenenza del proprio elettorato, se il fondatore del Nuovo centrodestra deve tentare di uscire dal cono d’ombra del premier per garantirsi un dividendo elettorale nelle urne e dare slancio al suo progetto.

Così si dividono nel loro stesso campo, che il segretario del Pd dice di voler invadere. E non c’è dubbio che la condizione in cui si trovano oggi ha origine nella decisione del Cavaliere di rompere con il governo Letta, di cui era di fatto il dominus, perché ne dettava i tempi e l’agenda. Nemmeno la sentenza di condanna sul caso Mediaset avrebbe scalfito il ruolo dell’ex premier, nemmeno l’onta della decadenza dal Senato, se avesse resistito. Così lo consigliavano i familiari e gli amici più fedeli, e lui sembrava essersi convinto, tanto da aver preparato un «discorso alla nazione» dove aveva scritto di provare «un profondo senso di ingiustizia», e in cui però ribadiva di voler tenere «separato il mio personale destino giudiziario dal destino politico del governo», perché «c’è qualcosa di più grande, ed è il bene del mio Paese».

Si era persuaso che sacrificandosi sarebbe stato santificato. Ed è per questo che in estate aveva anche predisposto un piano di riassetto del Pdl: «Facciamo due coordinatori», disse ad Alfano: «Uno lo scelgo io, e sarà Toti. L’altro lo scegli tu, e sarà Lupi». Invece fu «il blackout» — come lo definì Confalonieri — che cambiò il verso della politica, segnò il divorzio dai «traditori» rimasti al governo con «i miei carnefici» e aprì la strada al sindaco di Firenze. Il Cavaliere voleva che cadesse Letta, sebbene fosse stato Renzi — allora candidato alla segreteria del Pd — a spingere perché il voto sulla decadenza di Berlusconi non si incrociasse con le primarie di partito. Ed era stato Renzi a sostenere la campagna per impedire il voto segreto al Senato sulla decadenza di Berlusconi. E fu sempre Renzi, il giorno dopo il voto, a cinguettare «game over Berlusconi». Lo stesso Renzi che da trionfatore avrebbe ricevuto Berlusconi nella sede del Pd al Nazareno.

Non è paradossale se oggi Berlusconi fa asse con Renzi sulle riforme, mentre Renzi fa asse con Alfano sul governo. Più semplicemente si attiene alle regole della politica per restare in gioco, «per evitare — come ha sostenuto Verdini in una riunione di partito — di lasciare tutto campo al Nuovo centrodestra». È vero, se Forza Italia decidesse di far saltare l’intesa sulla legge elettorale, a ruota salterebbe anche il governo. Ma il Cavaliere è conscio di trovarsi in una morsa: se rompesse sul riassetto istituzionale si attirerebbe gli strali del Paese, se proseguisse — rimanendo fuori dal governo — darebbe l’idea di aver abdicato. Insomma, lo schema della «doppia maggioranza» pesa, specie a Forza Italia. È una condizione alla lunga insostenibile, e Brunetta riconosce che «la nostra posizione è complessa».

C’è un solo modo per tentare di spezzare la tenaglia, e il capogruppo azzurro alla Camera ci arriva al termine di un lungo ragionamento in nome «delle riforme, dell’Europa e della pacificazione». Finché: «... Renzi non può pensare di giocare con i due forni o si farebbe male. Il premier deve aprire a una grande coalizione». Dentro Forza Italia insomma c’è chi vorrebbe tornare dov’era quando c’era il Pdl e il Pd subiva i ritmi e le richieste del centrodestra, accettando di votare l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa. La politica come la storia non si fa con i se, ma di questo si discute nel partito e da molto tempo.

«Silvio, pensa cosa sarebbe stato se fossimo rimasti uniti e al governo...», ha detto un paio di settimane fa Romani al Cavaliere durante una cena ad Arcore. E i commensali raccontano che Berlusconi abbia prestato «attenzione» al discorso del capogruppo forzista al Senato. Ma Forza Italia non è più al governo e il Pdl si è diviso in due partiti impegnati in una guerra feroce, incapaci a far asse perché divisi sulla legge elettorale, impossibilitati a far pace perché divisi dalla competizione alle Europee. E chissà se e in che modo si ritroveranno dopo il voto, specie se Renzi continuerà a tenerli in pugno.

L’impressione è che nel centrodestra sia maledettamente difficile ricomporre la frattura e che ogni iniziativa per riaggregarlo non avvenga con i tempi giusti. Casini da un mese si è mosso per tentare l’impresa, la sua intervista al Foglio di due giorni fa — in cui sottolineava la necessità di unire «i partiti che si richiamano al Ppe» — era impeccabile. Peccato sia stata pubblicata con tre anni di ritardo rispetto a quando il Cavaliere nominò «Angelino» segretario del Pdl dandogli la missione di comporre la frattura con l’Udc. Ma allora il leader centrista disse no. E dopo Casini anche Monti rifiutò il ruolo di candidato premier dei «moderati». A veder bene i capponi di Renzi non sono solo Berlusconi e Alfano...




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