Corriere della Sera 02/06/14
Se lo sciopero dei dipendenti Rai
contro il governo fosse stato indetto qualche giorno prima delle
elezioni europee, ha assicurato Matteo Renzi dal palco del Festival
dell’Economia di Trento, sarebbe stato meglio perché «avrei preso
il 42,8 e non solo il 40,8%». La battuta è spietata ed è diretta
contro quello che resta del glorioso «partito Rai», rimasto a lungo
una delle constituency più influenti del centrosinistra. I
sondaggisti raccontano addirittura che negli anni che vanno dalla
metà dei 90 al 2004 per connotare gli elettori di centrodestra e
centrosinistra non si usassero più i vecchi parametri identitari
come imprenditore vs tuta blu oppure la frequenza alla Santa Messa ma
«la fiducia in Mediaset» contrapposta «alla fiducia nella Rai».
Per tutta la fase iniziale della Seconda Repubblica, se eri di
sinistra confidavi nelle magnifiche sorti dell’azienda televisiva
di Stato.
In parallelo all’interno di Viale Mazzini si andava
creando una situazione singolare: dal 2001 fino al 2012 i vertici
aziendali sono stati scelti dai governi a guida berlusconiana ma «la
pancia della Rai» è rimasta sempre e comunque affezionata alle
bandiere del centrosinistra. I segretari via via succedutisi a
Botteghe Oscure e al Nazareno hanno guardato con grande attenzione a
questa membership e hanno pescato a piene mani dal vivaio Rai per
intercettare il voto romano (con Piero Badaloni, Piero Marrazzo,
David Sassoli). Il primo leader che non si è appassionato al tema ma
vuole addirittura emanciparsene è proprio Renzi, conscio forse che
nei sondaggi di opinione la popolarità di Rai e Mediaset è scesa
drasticamente al livello dei partiti e delle banche e che alla
domanda «chi fa, secondo lei, servizio pubblico televisivo» molti
intervistati rispondono indicando Sky o La7.
In sostanza come la
sfida portata alle alte burocrazie dello Stato e alla dirigenza della
Cgil è servita a Renzi per fare il pieno di voti al Nord e in
particolare in Veneto, così l’opposizione frontale al partito Rai
dovrebbe aiutarlo a liberarsi di un’altra di quelle «catene della
sinistra» (come recita il titolo del libro di Claudio Cerasa) che
sono state azioniste occulte del progressismo italiano. Come ha
ribadito anche nel suo show di Trento il premier punta a «mettere la
residenza» a quota 40% e per questo ha in mente un posizionamento
del suo partito che alla fine produca un interclassismo dell’epoca
di Internet. Per ottenere questo risultato Renzi deve far guerra alle
piccole caste rosse senza rompere con la base sociale del
centrosinistra e con i suoi valori tipici come l’attenzione alla
scuola o la solidarietà verso gli immigrati. Non ripudia il voto di
pensionati, operai, dipendenti pubblici e ceti urbani intellettuali —
«la società bersaniana» — punta invece ad aggiungere al voto di
sempre il consenso di fette consistenti dell’imprenditoria autonoma
e del lavoro precario. Due segmenti del mercato elettorale che non
amano lo Stato e tutto ciò, compresa la Rai, che rimanda ad esso. La
manovra sugli 80 euro in più in busta paga è stata da questo punto
di vista esemplare, porterà ristoro economico ai lavoratori
dipendenti ma ha anche generato una querelle con la Cgil dimostrando
così all’elettorato chi è pragmatico (lui) e chi è invece
ideologico (Susanna Camusso). Idem con il tetto agli stipendi degli
alti burocrati presentato come una norma desunta addirittura dalla
lezione di Adriano Olivetti, un’icona della sinistra, e nei fatti
una sforbiciata destinata a far capire agli elettori che l’inciucio
tra il centrosinistra e i grand commis di Stato deve considerarsi
archiviato.
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