lunedì 7 settembre 2015

Quel tifo bipartisan in aula per le elezioni nel 2018.


Corriere della Sera 05/09/15
Francesco Verderami
Il Parlamento è come un’unica curva da stadio dove si fa il tifo per un solo risultato: le elezioni nel 2018. Per quanto sventolino bandiere diverse e abbiano obiettivi diversi, tutti sono impegnati nell’intrapresa sotto l’ombrello protettivo delle riforme. 
Basta vedere il rapporto tra Renzi e Berlusconi, mai così distanti nel linguaggio eppure mai così vicini negli interessi politici. Perché se il segretario del Pd vuole prolungare la sua permanenza a palazzo Chigi per vincere la sfida di governo, il leader di Forza Italia — che oggi sarebbe ineleggibile — non ha alcun motivo di sabotarlo: da venti anni lavora solo per se stesso, figurarsi se ora si mette al servizio di Salvini. Anche Bersani sta dentro questa paradossale e granitica alleanza, se — come dice il suo fedelissimo Gotor — «le riforme che erano state il pretesto per far iniziare la legislatura sono diventate ora il pretesto per farla durare». Il braccio di ferro al Senato sembrerebbe dunque solo un gioco di Palazzo, se non fosse che il voto sugli equilibri costituzionali sarà determinante per gli assetti politici. E lo sarà ancor di più il successivo referendum, che di fatto s’incaricherà di definire le alleanze tra partiti e dentro i partiti. Perciò sembra inevitabile un accordo nel Pd, perché se la minoranza dovesse distinguersi in Parlamento, sarebbe poi chiamata a comportarsi allo stesso modo al referendum: a quel punto — dinnanzi a una diversa visione dello Stato — la scissione diverrebbe inevitabile. Come sembra inevitabile il voto contrario di Forza Italia, visto che Berlusconi tiene all’asse con la Lega, sebbene il centrista Lupi si auguri ancora che «altre forze di centrodestra convergano sulle riforme per ricostruire un fronte moderato». Quello sarà il bivio, perciò ieri Alfano ha rimarcato la valenza dell’appuntamento, posticipato all’ottobre del prossimo anno. È vero che Renzi avrebbe preferito arrivarci in primavera, ma il ritardo è come un’assicurazione sulla vita per deputati e senatori, perché garantisce sulla durata della legislatura. Tutto insomma si tiene, mentre tutti si interrogano se il premier aprirà o meno alle modifiche sull’Italicum. Secondo il segretario dell’Udc Cesa, «il primo a volerle è proprio il signor Renzi», che in attesa del voto al Senato tiene appesi alleati e avversari: sul rimpasto di governo come sulle nomine nelle commissioni parlamentari, se ne riparlerà a ottobre. Tattica che ricorda Berlusconi. Sia chiaro, il premier è preoccupato per un eventuale passo falso a palazzo Madama sulle riforme, visto il mezzo milione di emendamenti presentato. Però fa mostra di essere «occupato» — così dice di sé — dalle questioni europee: «Ho l’ambizione di far cambiare certe idee a Bruxelles», tanto sull’immigrazione quanto sull’economia. E se sul primo tema la Merkel è «finalmente arrivata sulle posizioni dell’Italia», sul secondo fa affidamento sui dati dell’Istat che annunciano una crescita superiore alle stime, e confida che la stagione estiva abbia inciso sulla domanda interna grazie ai buoni risultati del turismo. Così Renzi vorrebbe presentarsi a Bruxelles per ottenere il primo via libera a quel piano triennale che considera «ambizioso» e che parte con il taglio delle tasse sulla casa. Era scontato l’appoggio di Alfano, «l’abolizione di Imu e Tasi così come una politica a sostegno delle famiglie sono cose di centrodestra». Meno scontato è stato il modo in cui il premier ha incontrato a palazzo Chigi la delegazione di Ncd, e la pubblicità che è stata data al vertice: in altri tempi Renzi avrebbe avuto un attacco di orticaria, stavolta ha offerto un riconoscimento politico agli alleati. Si vedrà se i centristi saranno con lui alle elezioni, oggi sono fondamentali per bilanciare la minoranza interna, alla quale non manca mai di dedicare un pensierino: «Per mesi mi hanno attaccato sul tesseramento, dicendo che era crollato perché avevo provocato la disaffezione dei militanti. E l’altra sera questi geni l’hanno ripetuto alla festa dell’Unità proprio quando sono stati resi noti i dati del due per mille: 540 mila persone hanno versato al Pd 5,5 milioni di euro. Ne avevamo previsti a bilancio solo 200 mila. Magari i nostri non si tesserano ma ci danno i soldi».

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