Corriere della Sera 05/09/15
Francesco Verderami
Il Parlamento è come un’unica curva
da stadio dove si fa il tifo per un solo risultato: le elezioni nel
2018. Per quanto sventolino bandiere diverse e abbiano obiettivi
diversi, tutti sono impegnati nell’intrapresa sotto l’ombrello
protettivo delle riforme.
Basta vedere il rapporto tra Renzi e Berlusconi, mai così distanti
nel linguaggio eppure mai così vicini negli interessi politici.
Perché se il segretario del Pd vuole prolungare la sua permanenza a
palazzo Chigi per vincere la sfida di governo, il leader di Forza
Italia — che oggi sarebbe ineleggibile — non ha alcun motivo di
sabotarlo: da venti anni lavora solo per se stesso, figurarsi se ora
si mette al servizio di Salvini. Anche Bersani sta dentro questa
paradossale e granitica alleanza, se — come dice il suo fedelissimo
Gotor — «le riforme che erano state il pretesto per far iniziare
la legislatura sono diventate ora il pretesto per farla durare». Il
braccio di ferro al Senato sembrerebbe dunque solo un gioco di
Palazzo, se non fosse che il voto sugli equilibri costituzionali sarà
determinante per gli assetti politici. E lo sarà ancor di più il
successivo referendum, che di fatto s’incaricherà di definire le
alleanze tra partiti e dentro i partiti. Perciò sembra inevitabile
un accordo nel Pd, perché se la minoranza dovesse distinguersi in
Parlamento, sarebbe poi chiamata a comportarsi allo stesso modo al
referendum: a quel punto — dinnanzi a una diversa visione dello
Stato — la scissione diverrebbe inevitabile. Come sembra
inevitabile il voto contrario di Forza Italia, visto che Berlusconi
tiene all’asse con la Lega, sebbene il centrista Lupi si auguri
ancora che «altre forze di centrodestra convergano sulle riforme per
ricostruire un fronte moderato». Quello sarà il bivio, perciò ieri
Alfano ha rimarcato la valenza dell’appuntamento, posticipato
all’ottobre del prossimo anno. È vero che Renzi avrebbe preferito
arrivarci in primavera, ma il ritardo è come un’assicurazione
sulla vita per deputati e senatori, perché garantisce sulla durata
della legislatura. Tutto insomma si tiene, mentre tutti si
interrogano se il premier aprirà o meno alle modifiche
sull’Italicum. Secondo il segretario dell’Udc Cesa, «il primo a
volerle è proprio il signor Renzi», che in attesa del voto al
Senato tiene appesi alleati e avversari: sul rimpasto di governo come
sulle nomine nelle commissioni parlamentari, se ne riparlerà a
ottobre. Tattica che ricorda Berlusconi. Sia chiaro, il premier è
preoccupato per un eventuale passo falso a palazzo Madama sulle
riforme, visto il mezzo milione di emendamenti presentato. Però fa
mostra di essere «occupato» — così dice di sé — dalle
questioni europee: «Ho l’ambizione di far cambiare certe idee a
Bruxelles», tanto sull’immigrazione quanto sull’economia. E se
sul primo tema la Merkel è «finalmente arrivata sulle posizioni
dell’Italia», sul secondo fa affidamento sui dati dell’Istat che
annunciano una crescita superiore alle stime, e confida che la
stagione estiva abbia inciso sulla domanda interna grazie ai buoni
risultati del turismo. Così Renzi vorrebbe presentarsi a Bruxelles
per ottenere il primo via libera a quel piano triennale che considera
«ambizioso» e che parte con il taglio delle tasse sulla casa. Era
scontato l’appoggio di Alfano, «l’abolizione di Imu e Tasi così
come una politica a sostegno delle famiglie sono cose di
centrodestra». Meno scontato è stato il modo in cui il premier ha
incontrato a palazzo Chigi la delegazione di Ncd, e la pubblicità
che è stata data al vertice: in altri tempi Renzi avrebbe avuto un
attacco di orticaria, stavolta ha offerto un riconoscimento politico
agli alleati. Si vedrà se i centristi saranno con lui alle elezioni,
oggi sono fondamentali per bilanciare la minoranza interna, alla
quale non manca mai di dedicare un pensierino: «Per mesi mi hanno
attaccato sul tesseramento, dicendo che era crollato perché avevo
provocato la disaffezione dei militanti. E l’altra sera questi geni
l’hanno ripetuto alla festa dell’Unità proprio quando sono stati
resi noti i dati del due per mille: 540 mila persone hanno versato al
Pd 5,5 milioni di euro. Ne avevamo previsti a bilancio solo 200 mila.
Magari i nostri non si tesserano ma ci danno i soldi».
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