Corriere della Sera 05/09/15
Pierluigi Battista
La marcia resta sempre qualcosa di
memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non
si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa
sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci
commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato
di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far
finta di niente.
Una marcia può servire una buona causa o può
servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella
che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo
scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può
essere uno stru-mento formidabile di ricatto e di pressione, come
quella dell’ottobre del ’22 condotta dalle camicie nere e che
terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.
Questa marcia dà
invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui
dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere
una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce
della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro
immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e
figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette
in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver
lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta,
le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza
scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un
traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare
proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro
anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner
e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non
aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per
ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?
La forza di una
marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire
dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli
«destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante,
selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette
a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra
passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità
compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed
economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano
questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più
sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai
profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio
di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è
costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.
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