Corriere della Sera 06/09/15
Nathania Zevi
Caro direttore, mi chiamo Nathania Zevi
e ho trent’anni. Faccio, non senza difficoltà e imprevisti, il
lavoro che amo, ho un figlio, una famiglia allargata e molti altri
sogni. Circa otto anni fa ho trascorso un semestre universitario a
Madrid nell’ambito del programma Erasmus. Mesi meravigliosi. Notti
brave, incontri con colleghi provenienti da ogni Paese europeo,
voglia di conoscersi, confrontarsi, parlare l’uno la lingua
dell’altro. Un’esperienza unica, che ritengo cruciale nella
formazione della mia coscienza e della mia identità. Ebbene,
direttore, di fronte alle immagini sconvolgenti quanto quotidiane
delle nostre coste, dei nostri mari, dei nostri bambini che affogano
con le mani fredde e il cuore gelato non posso fare a meno di
chiedermi: in che modo siamo stati cresciuti per essere la
«generazione Erasmus»? A cosa sono serviti gli «appartamenti
spagnoli»? Per quale scopo e con quale obiettivo abbiamo stanziato i
fondi necessari a mandarci, giovani e pieni di speranza, in Europa?
Abbiamo forse investito tanto per trovarci oggi a essere cittadini e
attori di un’ Europa insensibile, ipocrita, chiusa, razzista e in
taluni casi forse assassina? Siamo davvero andati solo per poi
raccontare agli amici a casa delle tapas mangiate, dei troppi
cocktail bevuti o delle nostre avventure amorose internazionali? Cosa
facciamo oggi delle lingue che abbiamo imparato? E cosa con gli amici
ungheresi o inglesi che sentiamo via Skype o andiamo a trovare con
aerei low cost? Cosa ne è di tutta questa ricchezza? È il momento
di decidere se siamo un fallimento o rappresentiamo un’opportunità.
Nel primo caso, appurata la nostra incapacità di essere generazione
ponte e veicolo di un’Europa funzionante, non sarebbe meglio
devolvere i fondi che il programma Erasmus e altri affini non hanno
saputo sfruttare per creare una generazione europea degna di questo
nome a chi ne ha più bisogno? Chi dice che la mia generazione sta
solo subendo questa situazione sbaglia. A trent’anni o sei parte
della soluzione o sei il problema. La mia religione, ebraica, impone
di aiutare i nostri vicini. La nostra storia di perseguitati,
migranti, profughi, ci guida a una memoria che deve diventare azione.
Se quindi — come spero — la nostra esperienza europea vale
qualcosa; come trentenne, madre, ebrea, ma soprattutto come
individuo, desidero agire e mi aspetto che anche il nostro governo, i
nostri rappresentanti europei e il nostro presidente Matteo Renzi,
nella sua posizione istituzionale, generazionale, ma anche come
padre, cattolico e individuo ci guidi nel trasformare le nostre
azioni individuali (l’Italia è patria di populismi e razzismi ma
anche di generosità infinite) in un grande movimento generazionale.
È il nostro momento, altrimenti l’Erasmus e l’Europa senza
confini non hanno avuto e non hanno alcun significato.
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