L'Unità 6 settembre 2015
Umberto Ranieri
Leggo l’intervista di Massimo D’Alema
ad Aldo Cazzullo (Corriere della Sera del 3 settembre) e resto
sbalordito dal carattere distruttivo della opposizione che egli
ritiene debba essere condotta nel Pd contro Matteo Renzi. Nella
intervista si cercherebbero vanamente alternative alle scelte e alle
misure adottate dal governo nei campi cruciali della politica
economica e della politica estera ed europea. Tutto si risolve in un
tentativo di delegittimazione ideale e morale di Renzi. Tecnica del
resto storicamente ben nota in una certa sinistra. Senza tema del
ridicolo, D’Alema confessa di sentirsi addirittura vittima dei
metodi stalinisti imposti da Renzi per regolare a suo piacimento la
dialettica interna al Pd e non resiste alla tentazione di
identificarsi con i dissidenti troskjsti cui toccava la fucilazione.
Cose da pazzi si direbbe a Napoli! Non mancano nemmeno alcune sue
rituali affermazioni: non cerca cariche, lavora a Bruxelles, si
occupa di politica internazionale. Insomma, sia chiaro, ha altro per
la testa, salvo, nei momenti liberi, dilettarsi di politica interna e
magari, lancia in resta, andare all’assalto di Renzi. Ma tant’è!
E veniamo ad alcuni degli argomenti cui
ricorre D’Alema nella sua requisitoria. Non riconoscere quanto
avuto in eredità dal Pd è il primo rimprovero rivolto a Renzi. È
appena il caso di ricordare che Renzi è diventato segretario di un
partito che aveva perduto otto punti alle elezioni del febbraio 2013,
aveva avuto una condotta dissennata e imbarazzante dopo quel
risultato, sembrava destinato ad un inarrestabile declino. Questa
l’eredita toccata Renzi. Farebbe invece bene D’Alema a
interrogarsi sulle cause di fondo del successo del sindaco di
Firenze. Più della promessa a condurre il Pd fuori dalle secche di
una politica in crisi e a recuperarlo ad un ruolo di primo piano
nella trasformazione del Paese, pesò la insoddisfazione per il modo
in cui era stato diretto il partito. Si era al tracollo di una classe
dirigente, di cui D’Alema era l’interprete più autorevole,
usurata da una troppo lunga permanenza al potere. Il sostegno a Renzi
fu vissuto come la liberazione dal peso di una oligarchia. Così
stavano le cose nell’animo di compagni, amici ed elettori che
parteciparono alle primarie per la scelta del segretario. Ma D’Alema
ha rimosso l’intera vicenda. Non c’è mai stato in questi due
anni un abbozzo di riflessione critica sulle cause di quel risultato.
Colpisce infine, per il suo primitivismo, l’accusa che D’Alema
rivolge alla politica di Renzi di essere sostanzialmente una variante
della destra. Accusa accompagnata dall’offesa estrema: Renzi ha
scelto le posizioni di Berlusconi. Niente di nuovo sotto il sole: il
lessico è ripescato dal più cupo armamentario polemico della
sinistra. Se non fosse ottenebrato da «odi gretti e ripicche»
D’Alema dovrebbe intendere che il tentativo di Renzi mira alla
costruzione di un Pd che assuma sempre più il profilo di una forza
centrale del sistema politico italiano. Nel muovere in questa
direzione Renzi fa leva sulla intuizione che fu di Veltroni (e della
migliore tradizione politica della sinistra) di lavorare per
sottrarre alla destra elettorati moderati. Impresa ardua considerato
che dalla storia elettorale degli ultimi venti anni emerge una
sorprendente stabilità numerica tra destra e sinistra che vincono o
perdono non per mobilità elettorale tra essi ma per altri fenomeni:
astensionismo, trasformismo, frantumazione del voto. C’è bisogno
quindi di una forza in grado di fornire per cultura, collocazione e
programmi un punto di riferimento a settori fondamentali della
società italiana, a forze che si interrogano alla ricerca di una
strada che eviti il decadimento del Paese, ad elettori che si
allontanano da un centro destra in crisi. Questa l’operazione
politica cui mira Renzi. Ci riuscirà? Vedremo. A tutto ciò D’Alema,
imperterrito, risponde con la formule più vieta dell’infantilismo
settario: Renzi non è di sinistra. Non solo. L’attuale segretario
del Pd avrebbe prodotto «una rottura sentimentale con la nostra
gente» (la stessa gente che, nelle regioni rosse, alle primarie ha
scelto di gran lunga Renzi per farla finita con una inamovibile
nomenclatura). Inaudito! Per D’Alema ci sarebbe in sostanza uno
snaturamento della tradizionale ispirazione di sinistra delle
politiche di un governo di centro sinistra. La stessa polemica
condotta oggi da settori minoritari e massimalisti non solo verso il
Pd ma verso tutte le formazioni socialiste di governo europee.
Polemica ingenua, passatista e inconcludente. Polemica fuorviante che
dà per scontata, demagogicamente, la possibilità che, nelle
condizioni di oggi, sia semplice ed agevole utilizzare, nella
delineazione delle riforme necessarie, un decalogo di concetti,
strumenti e criteri orientativi riconducibili alle esperienze e alla
tradizione della sinistra del secolo scorso.
In realtà emerge una debolezza di
cultura politica in D’Alema. La crisi non giustifica una ripresa di
posizioni antiliberali o dirigiste, né conduce a fare quadrato
attorno allo stato sociale senza porsi il problema di modifiche per
adeguarlo alle novità intervenute. Non solo. Dal Job Act alla scuola
e alla annunciata rivoluzione fiscale non sono mancati riferimenti ad
esperienze di coalizioni di centro sinistra in Europa. C’è infine
da osservare che la caratteristica dell’azione riformatrice di un
governo in un contesto aperto e democratico consiste
nell’attenuazione di una dichiarata filiazione ideologica o di
scuola dei progetti di riforma: riforme e cambiamenti si
giudicheranno molto di più dalla loro efficacia e corrispondenza ai
problemi di oggi che dalla loro presunta aderenza a criteri
riconducibili alle esperienze della sinistra del ’900. Non manca
nella intervista un riferimento di D’Alema alla disputa sulla
riforma del Senato. Lo fa quasi di sfuggita e tuttavia anche in quel
caso, sostenendo la elezione diretta dei membri della seconda Camera,
si mostra in sintonia con suggestioni passatiste ed agitatorie.
Epilogo dolente.
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