foto del giorno
lunedì 30 giugno 2014
Specialisti.....
“Muro protettivo anche a est di Israele” Netanyahu contro l’avanzata jihadista
Il premier vuole rafforzare la sicurezza da Eilat fino alla barriera
del Golan: «Sì a cooperazione regionale con Egitto, Giordania e curdi
contro l’Islam radicale»
Egitto, tre le bombe nell'attentato al Palazzo presidenziale: due morti
30 giugno 2014
La Repubblica
Ferite altre sei persone nel giorno
dell'anniversario del primo anniversario delle manifestazioni contro
l'ex presidente Morsi
IL CAIRO - E' di due morti e sei feriti il bilancio delle esplosioni di tre bombe avvenuto vicino al Palazzo presidenziale del Cairo, nel giorno del primo anniversario delle manifestazioni di massa contro l'ex presidente Mohamed Morsi. L'esplosione della prima bomba ha causato il ferimento di 3 spazzini, mentre un secondo ordigno ha ucciso un colonnello della polizia e un altro ufficiale. Erano alla ricerca di altri ordigni da disinnescare. Una terza bomba in un giardino vicino all'edificio è stata disattivata.
Morsi è stato deposto il 3 luglio scorso dalla presidenza con un colpo di Stato. E la "Coalizione anti-golpe", movimento che sostiene Morsi, ha annunciato che proprio il 3 luglio sarà "la giornata della collera assoluta che segnerà l'inizio della fine del colpo di Stato". Esploderà il "vulcano della collera mantenendo la pacificità anche se l'autodifesa resta un diritto legittimo", ha fatto sapere con un comunicato pubblicato su Facebook.
Nuova tragedia del mare.
Soccorso barcone con 30 cadaveri
Un peschereccio carico di migranti, circa 600 persone, è stato preso a rimorchio dalla marina militare
Un peschereccio carico di migranti con a bordo anche
circa 30 cadaveri - il numero esatto ancora non si conosce - è stato
soccorso nella notte di domenica da mezzi della marina militare nel
Canale di Sicilia. Stipati in una parte angusta del barcone, i migranti
sono morti probabilmente per asfissia, ma non ci sono certezze. Proprio
la posizione in cui si trovano i corpi ha impedito il loro immediato
recupero: solo un paio di cadaveri sono stati portati a bordo della nave
militare, gli altri saranno recuperati in porto. L’imbarcazione è stata
presa a rimorchio e arriverà nella mattinata di lunedì nel porto di
Pozzallo, nel Ragusano. Già soccorse, invece, due donne incinte. A
bordo del barcone, soccorso dalla nave «Grecale» del dispositivo «Mare
nostrum», ci sono centinaia di persone: oltre 600 le persone soccorse,
secondo le prime informazioni.
Altri 5.000 salvati in 48 ore
Oltre 5000 migranti soccorsi, nell’ultimo fine settimana, dalle navi
della Marina Militare inserite nel dispositivo aeronavale interforze
Mare Nostrum. La fregata Grecale con a bordo 566 e la corvetta Chimera
con 353 migranti arriveranno in giornata nel porto di Pozzallo. Nel
pomeriggio di ieri, spiega in una nota la Marina Militare, durante le
operazioni di soccorso e di ispezione ad un barcone venivano rinvenute
circa 30 salme stivate nella zona prodiera dell’imbarcazione.
Già oltre 60 mila persone
Non
si arresta l’ondata di migranti e profughi che cercano di raggiungere
l’Italia fuggendo dalle guerre e dalla disperazione: dall’inizio
dell’anno sono già oltre 60 mila i salvati nel canale di Sicilia, ed è
ormai evidente non solo che verrà superato il record del 2011 (63 mila)
ma anche che è sempre più realistica la previsione dei tecnici che non
escludono la possibilità che si arrivi a toccare le 100 mila presenze a
fine anno, mettendo a dura prova il sistema di accoglienza dei Comuni.
Romano Prodi
ANDREA BONANNI
La Repubblica - 29/6/14
L’ex premier e presidente della
Commissione Ue giudica l’esito del Consiglio europeo. “Ora —
dice — la sfida è battere la burocrazia italiana per far camminare
le riforme. E la flessibilità sui parametri va bene, ma non è
decisiva. Deve cambiare l’intera politica del continente. Mai
sentito parlare di Keynes? Lo ha fatto l’America di Obama, lo ha
fatto pure la Cina. L’Europa li imiti, innanzitutto con una
politica che abbassi il cambio euro-dollaro”. “Matteo è più forte ma ora servono
fatti concreti non belle intenzioni”
Ok a Juncker che “saprà scegliere le
priorità” dell’Unione. Critiche a Cameron che “ha preso una
sberla e porta la Gran Bretagna all’isolamento”.
Appello a Renzi perché “dimostri di
avere dietro un Paese forte come si è dimostrato lui sul piano
personale”.
Presidente Prodi, lei conosce bene
Jean-Claude Juncker. Contento della sua designazione a presidente
della Commissione?
«Sì. Lo conosco da molti anni. E’
una persona di grande intelligenza e forse lo statista che meglio
capisce i meccanismi europei. Per questo non riesco a spiegarmi le
critiche inglesi, a meno che non siano una provocazione politica» Ma
il vizio del fumo, e il bicchiere facile: accuse fondate?
«Tutti nella vita possono aver avuto
momenti difficili. In ogni caso si tratta di un passato chiuso da
tempo. E comunque posso testimoniare che la sua lucidità di giudizio
non è mai stata minimamente intaccata. Piuttosto ricordo certe sue
accanite battaglie per difendere gli interessi lussemburghesi sul
segreto bancario e su alcune pratiche finanziarie che non mi erano
piaciute. Sono convinto che ora sceglierà priorità diverse perchè
conosce l’importanza del suo ruolo».
Come sarà l’Europa di Juncker
rispetto a quella di Prodi?
«Dal vertice di venerdì vedo emergere
cambiamenti importanti sia in campo politico sia in campo economico.
Il primo cambiamento, e il più significativo, è che finalmente i
cittadini europei hanno potuto eleggere, sia pure indirettamente, il
presidente della Commissione. Ora sarà più difficile accusare le
istituzioni europee di un deficit democratico. Il secondo dato
politico rilevante è che la Gran Bretagna appare sempre più
isolata. Cameron ha preso una sberla molto dura. Francamente non
riesco a capire il suo atteggiamento. Ha finito per far fare un passo
avanti all’Europa contro la sua volontà. Se avesse evitato di
chiedere il voto su Juncker avrebbe avuto più margini d’azione.
Invece è andato a mettersi da solo in un angolo, e per di più in
compagnia di un estremista come l’ungherese Orban ».
La deriva inglese verso l’uscita
dall’Ue è ormai inevitabile?
«Io non credo che Londra uscirà
dall’Ue, anche se il governo britannico sembra fare di tutto perchè
questa deriva non si fermi. Ma di certo già oggi il Regno Unito
appare sempre più isolato e marginale. Come, del resto, mi sembra
che da questo vertice esca ridimensionato anche il ruolo francese».
E l’Italia? Come esce Renzi dal
primo difficile confronto europeo?
«Renzi esce più forte sul piano
personale. Ora però deve dimostrare di avere dietro di sè un paese
altrettanto forte. E questo è più difficile. I problemi dell’Italia
sono il suo debito più che il suo deficit, e la sua capacità di
mettere in pratica le riforme più che quella di deciderle. I decreti
di attuazione delle molte leggi che sono state varate sono ancora
tutti da fare. E l’Europa, giustamente, guarda ai fatti concreti,
non alle belle intenzioni e neppure alle leggi giuste ma inattuate.
Renzi può aver vinto la battaglia contro i burocraticismi europei
dei vincoli di bilancio, ma deve ancora vincere quella contro la
burocrazia italiana».
E la guerra, neppure tanto
sotterranea, sulla possibile candidatura di Enrico Letta o di
Federica Mogherini?
«Quelle sono questioni di cucina
politica interna al Pd in cui preferisco non entrare».
Ma almeno sui nuovi margini di
flessibilità che il governo dice di aver conquistato in Europa si
può pronunciare?
«La dichiarazione del vertice è più
un atto di buona volontà che una decisione concreta. Quel che ne
seguirà dipenderà soprattutto dal braccio di ferro interno alla
politica tedesca tra falchi del rigore e colombe della crescita. La
Merkel non ha fatto vere concessioni, ma ora anche in Germania
subisce forti pressioni perchè, sul fronte della crescita e
dell’occupazione, pure Berlino comincia ad avere problemi».
E allora come può cambiare la
governance economica?
«Il problema è che oggi non serve
discutere se cambiare i parametri. Renzi fa bene, nell’interesse
dell’Italia, a cercare di guadagnare maggiori margini di
flessibilità per i nostri conti pubblici. Ma, nell’interesse
dell’Europa, quello che deve cambiare è l’intera politica
economica del continente».
E in che senso?
«Mai sentito parlare di Keynes?
L’America ha innescato per prima la crisi, ma con Obama ne è
uscita più in fretta di noi grazie a una pura politica keynesiana.
Lo stesso ha fatto la Cina. Lo stesso deve fare l’Europa.
Certamente le politiche keynesiane si possono applicare solo quando
esiste lo spazio economico per farlo. Ma con una bassa inflazione e
una bilancia commerciale attiva, l’Europa questo spazio ce l’ha e
dovrebbe approfittarne, innanzitutto con una politica che abbassi il
tasso di cambio tra euro e dollaro».
E chi lo dice alla Merkel?
« Oggi ci sono le condizioni per
farlo. Italia, Francia e Spagna in questa fase hanno le stesse
esigenze. E quindi possono premere insieme per una politica economica
diversa. La novità è che ora i socialisti francesi, dopo la batosta
elettorale, hanno assolutamente bisogno di registrare un
miglioramento dei dati economici per invertire il corso delle loro
fortune politiche. Quindi un cambiamento delle politiche economiche è
per la prima volta negli interessi non solo dell’Italia e della
Spagna, ma anche della Francia. Il ruolo dell’Italia, che tra
l’altro avrà adesso la presidenza dell’Ue, è uscito aumentato
da questo vertice. Credo che Renzi potrebbe approfittare di questo
concorso di circostanze favorevoli per cercare davvero di “cambiare
verso” all’economia dell’Ue».
Il Bel Paese
Marta Giovannini
Anche
la terra vitivinicola di Langa è diventata patrimonio dell'umanità
(sito Unesco).
Il mondo sa quindi di avere un privilegio in più: poterla contemplare e
doverla difenderla dallo scempio di chi sacrifica la storia e la
tradizione per i quattro soldi delle speculazioni che già Gadda
denunciava più un secolo fa.
Di questo aspetto dovrà occuparsi sempre più anche quella politica che
oggi sgomita nell'intestarsi il risultato del presentigioso
riconoscimento; traducendo, finalmente, in fatti "pesanti" le tante
parole degli ultimi giorni.
A questo si deve affiancare poi una lungimirante politica sul trasporto
locale. L'Italia, tutta intera, ha una caratteristica: tanti borghi
piccoli, spesso fatti di viver bene e sapientemente, ma troppo isolati e
per questo spesso abbandonati. Collegarli almeno come si collegano le
periferie al centro della città sarebbe un' opera importante più di
tante altre perché porterebbe ad investire davvero sulla qualità della
vita.
Il riconoscimento Unrsco infatti non va inteso nel solito senso
economico - l'unico metro che pare rimasto per misurare cose e persone -
ma con altro e più ampio "sguardo", essendo si qualcosa di prezioso, ma
fatto di quel valore che non si può comprare; un valore che ripaga solo
chi è disposto nell'animo a riceverne davvero beneficio.
Essere diventati Patrimonio dell'Umanità e' la vittoria attestata della
nostra campagna, dei nostri bellissimi paesi, sulla città, della
profondità del verde sul grigiore del cemento, della tradizione della
gente semplice sulla mondanità, del silenzio delle colline sul chiasso,
della contemplazione sulla frenesia del fare per fare, della vita
semplice sulle troppe affannose ricerche e, così, della felicita'
ritrovata in cose antiche e ritmi scanditi con giuste pause. Bene
prezioso appunto che la civiltà di oggi cerca e, qui, trova.
Libiamo dunque a questo e a null'altro!
Brindiamo con i gradi vini che sono essenza di ciò che vediamo, magari
sotto una bella luna d'estate, dove 45 anni fa abbiamo messo piede,
vista pero dal belvedere di uno dei nostri borghi sufficientemente
lontani da quelle "luci della città", e delle periferie, sulle quali
anche il grande Chaplin, muto e in bianco e nero, nutriva qualche
dubbio.
sabato 28 giugno 2014
Svolta federalista per l’Europa
ANDREA BONANNI
La Repubblica - 28/6/14
Oggi comincia l’Europa di Jean-Claude
Juncker. E sarà, nel bene o nel male, un’Europa diversa da quella
che abbiamo conosciuto. Profondamente diversa, a cominciare dalla
designazione del presidente della Commissione europea avvenuta, per
la prima volta nella storia, con un voto che mette in minoranza la
Gran Bretagna e pone fine a quarant’anni di veti inglesi sulla
politica europea.
La nomina di Juncker non è stata
decisa in conciliaboli segreti tessuti nelle anticamere del vertice,
come quella di tutti i suoi predecessori. Per diventare presidente
della Commissione, l’ex premier lussemburghese ha dovuto ottenere
l’investitura dei leader del Ppe come candidato del partito. Il Ppe
ha dovuto vincere le elezioni. Il Parlamento ha dovuto costruire una
maggioranza basata sulla grande coalizione popolari-socialisti. I
capi di governo hanno dovuto inchinarsi alla volontà dei cittadini e
dei partiti politici.
Bruxelles e, grazie all’impulso dell’Italia,
hanno dovuto elaborare una pur vaga
piattaforma programmatica per il futuro governo dell’Europa. Tutto
questo non era mai successo. E, ora che è avvenuto, cambia
radicalmente gli equilibri di una Unione europea in cui l’Italia
ritrova quel ruolo centrale che aveva perduto dai tempi dei governi
Berlusconi. Ma come sarà l’Europa di Jean Claude Juncker?
Il più bel complimento al nuovo
presidente della Commissione lo ha fatto ieri, senza rendersene
conto, il suo nemico giurato David Cameron: «Per tutta la sua vita
Juncker è stato al centro del progetto europeo con l’obiettivo di
aumentare i poteri di Bruxelles e di ridurre quelli degli stati
membri », ha detto il primo ministro britannico per giustificare il
suo no alla nomina di un «federalista» come presidente della
Commissione europea. Ma la crociata di Cameron è stata inutile, se
non addirittura controproducente. E ora questo cristiano-sociale
lussemburghese, sessant’anni a dicembre, che fu allievo e pupillo
di Helmut Kohl, avrà modo di mettere alla prova la sua consumata
abilità di animale politico alla guida del governo dell’Europa per
cercare davvero di «aumentare i poteri di Bruxelles ». Non avrà un
compito facile.
Il prossimo ostacolo che Juncker dovrà
superare sarà quello di trovare una maggioranza politica nel
Parlamento europeo. «Sono fiero ed onorato di avere ricevuto oggi il
sostegno del Consiglio europeo e contento all’idea di lavorare con
i deputati europei per formare una maggioranza in Parlamento prima
del voto del 16 luglio», ha twittato ieri al momento della nomina.
In teoria il compito dovrebbe essere semplice, visto che la sua
designazione è frutto di un accordo tra socialisti e popolari, a cui
intendono aderire anche i liberali. I tre partiti gli garantiscono
un’ampia maggioranza. Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli.
Riuscirà, per esempio, a conquistare il voto dei laburisti inglesi,
che hanno condiviso la crociata di Cameron contro la sua nomina? E
arriverà a strappare il consenso anche dei verdi e dell’estrema
sinistra, diventando così il presidente degli europeisti
contrapposto agli euroscettici che certamente gli voteranno contro?
Il suo futuro percorso alla guida della Commissione dipenderà anche
dal tipo di maggioranza che avrà saputo raccogliere.
Di certo, le capacità e l’esperienza
non gli mancano. Entrato in politica nell’84, è stato per sei anni
governatore della Banca Mondiale. Poi, per diciannove anni, dal 1995
al 2013, è stato primo ministro del Lussemburgo divenendo il decano
dei leader europei. Ma già nel ‘92, come ministro delle Finanze
del Principato, era seduto al tavolo dei negoziati per il Trattato di
Maastricht. «Oggi ero l’unico capo di governo che non lo
conoscesse personalmente», ha raccontato ieri Matteo Renzi. Per otto
anni, fino al 2013, è stato anche presidente dell’eurogruppo, che
riunisce i ministri delle finanze della zona euro. E in quella veste
ha vissuto in prima persona tutta la difficile gestione della crisi
finanziaria e del salvataggio dell’euro e degli stati minacciati di
bancarotta.
Sbaglia, però, chi crede che
Jean-Claude Juncker sia un profeta dell’austerity in salsa tedesca.
Al contrario. Nel corso della sua lunga carriera ha spesso preso
posizioni sgradite a Berlino, e anche a Parigi. Come quando si
schierò apertamente a favore degli euro-bond e contro la troika.
Durante gli anni della presidenza dell’eurogruppo ha spesso
criticato la Germania accusata di «trattare l’Europa come una sua
filiale», e le politiche di austerity praticate da un’Europa «che
punisce invece di aiutare». Quando se ne è andato dalla guida
dell’eurogruppo non ha mancato di denunciare «le ingerenze
franco-tedesche». Per quanto riguarda l’Italia, non ha mai
nascosto la sua profonda insofferenza verso Berlusconi.
Che con simili precedenti Juncker sia
riuscito ad ottenere prima l’appoggio dei leader del Ppe, Merkel e
Berlusconi in testa, e poi il sostegno di 26 capi di governo su 28 la
dice lunga sulle sue capacità di politico. Ora dovrà metterle al
servizio della sua nuova mansione. Nel corso della campagna
elettorale, il suo slogan è stato tutto centrato sulla necessità di
superare le divisioni e le diffidenze che oggi paralizzano l’Europa.
Non è un compito facile. E il documento programmatico con cui i capi
di governo hanno accompagnato la sua nomina, dalla questione della
flessibilità sui conti pubblici voluta dall’Italia a quella delle
due velocità nell’integrazione europea voluta dalla Gran Bretagna,
sembra delimitare il terreno dei prossimi regolamenti di conti
piuttosto che definire una piattaforma consensuale e condivisa.
In questo regolamento di conti la
futura Commissione europea avrà un ruolo cruciale. Ma quale sarà
questo ruolo dipenderà solo in parte dalla figura del presidente.
Decisive saranno anche le personalità dei commissari che andranno ad
occupare le poltrone strategicamente più importanti: una partita che
si comincerà a giocare al prossimo vertice del 16 luglio.
I miei eroi
Buongiorno
Massimo Gramellini
La Stampa 28 giugno 2014
«Caro Massimo, mi piacerebbe condividere con te il mio Buongiorno
speciale. In questo periodo storico particolare, vorrei che qualcuno mi
chiedesse chi sono i miei eroi, le persone per le quali valga davvero la
pena di svegliarsi al mattino. Risponderei che i miei eroi sono tanti.
Non i politici (ovviamente), non i colleghi avvocati più anziani di me
(spesso accecati dalla corsa al guadagno), nemmeno i Grandi della storia
e coloro che si sono distinti per i loro atti valorosi.
La mia prima eroina è V., 4 anni, che un sabato pomeriggio mi ha
fatto venire la pelle d’oca quando si è svegliata disperata per dirmi
“io non voglio più stare nella casa dei bambini, io voglio due grandi
speciali”. È P., 2 anni, che quando mi vede entrare mi ringrazia con il
suo sorriso e i suoi occhi, dato che la bocca emette ancora suoni
indistinti. È anche D., 16 anni, che studia talmente tanto a scuola che i
suoi educatori fanno a gara per andare ai colloqui con i professori. Ed
è anche Paolo, un signore in pensione a cui non piace molto giocare con
i bambini, ma si occupa della loro casa anche solo cambiando una
lampadina. O Emma, una signora di mezza età che la domenica cucina per
tutti il suo profumato ragù. Vedi, Massimo, esistono ancora molti eroi
nell’Italia che troppe persone non fanno altro che criticare. Pochissimi
li vedono. Eppure i miei eroi sono talmente semplici da essere davanti
agli occhi di tutti». Sara
Grazie, Sara, per la boccata
d’aria fresca. Però, credimi, non sei sola. Tanti vedono i tuoi eroi
semplici e tanti ne hanno di propri. Da oggi, se vorranno, i nostri
lettori potranno dirci quali sono scrivendoli nello spazio “commenta”
in basso a destra di questa pagina.
Quanto ci mancava....
....Renzi è coevo a questo tempo, quello che ha sostituito lo
scontro fra destra e sinistra con quello fra l’alto e il basso che noi
imperfettamente chiamiamo populismo. E perché Renzi
è fortissimo? Perché la sua trasversalità fonda il populismo
dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato populista, per l’altro
è neobonapartista, cioè usa il populismo per plasmare il governo
dall’alto. L’esito è neautoritario: un governo che si presume
così, asettico, obbligato nelle scelte e privo di alternative,
’naturale’....
Fausto Bertinotti
L’INGANNEVOLE UGUAGLIANZA.
Michele Ainis
Corriere della Sera 28/06/2014
Uno vale uno, senza un centesimo di
resto. È lo slogan del Movimento 5 Stelle, ma è ormai diventato
l’inno che intonano tutti gli italiani. Dopo un ventennio di crisi
economica e morale, circola difatti un sentimento nuovo, o forse
antico quanto il principio d’eguaglianza, che ne prospetta tuttavia
la versione più estrema e radicale. Quella che a suo tempo si
riflesse nel Manifesto degli eguali di Gracco Babeuf, ghigliottinato
nel 1797. O nella formula di Bentham: «Ognuno deve contare per uno,
e nessuno per più di uno». Sicché guai a chiunque eserciti un
potere d’influenza, un’autorità giuridica o politica. Se siamo
tutti uguali, quel potere è un abuso, un privilegio.
Sbarazziamocene, e metteremo un piede in Paradiso.
Le prove? Per
esempio il tormentone sull’immunità dei senatori. Cancellata nel
progetto del governo, riesumata da un emendamento
Calderoli-Finocchiaro: apriti cielo. Come si permette, questo nuovo
Senato non eletto, a rivendicare una protezione negata ai comuni
cittadini? Poi, certo, possiamo ragionarci sopra, anche a costo
d’ottenerne in cambio fischi e pomodori. Osservando che l’immunità
non s’accompagna all’elezione, bensì piuttosto alla funzione;
altrimenti perché mai ne godrebbero i giudici costituzionali, orfani
d’un voto popolare? Ma questi argomenti suonano ormai come sofismi,
acrobazie verbali. D’altronde sembra un orpello anche lo Stato di
diritto, di cui è figlia la separazione dei poteri, e nipotina la
stessa immunità. Brevettata, guardacaso, dai profeti più
intransigenti del principio d’eguaglianza: dai giacobini, nel 1790,
dopo l’incriminazione del deputato Lautrec. Perché se il
Parlamento non può annullare una sentenza, nessuna sentenza può
annullare il Parlamento. E a sua volta il Parlamento non è l’unico
organo dello Stato di diritto, benché sia l’unico legittimato
dalle urne. In una democrazia costituzionale s’aprono altri canali
di legittimazione, che investono per esempio la Consulta. O almeno:
era così una volta, domani non si sa. Se uno vale uno, quell’uno
dev’essere eletto dal popolo votante. Le polemiche sull’elezione
del Senato trovano qui la loro scaturigine. Come del resto il
sentimento di ripulsa verso l’immunità, l’indennità, l’autorità
medesima di chi ci rappresenta. Se vuole il nostro voto, dovrà
lavorare gratis, senza protezioni, e con un megafono che registri
tutti i nostri umori.
Errore: nessuna società umana, neanche la
più egualitaria, è mai riuscita a bandire il potere dai suoi
ranghi. C’è sempre stato chi governa e chi viene governato. E
quando i governanti hanno promesso l’assoluta parità fra gli
individui, si sono presto trasformati in dittatori. Lenin immaginava
che una cuoca potesse reggere lo Stato, ma intanto fucilava i suoi
avversari. Da quegli avvenimenti è ormai trascorso un secolo, sarà
per questo che ce ne siamo un po’ dimenticati. Invece dovremmo
ripassarne la lezione: non si tratta di disarmare il potere, si
tratta semmai di controllarlo. Per esempio attraverso la rotazione
delle cariche, con un limite di mandati in Parlamento e nel governo.
O attraverso il recall, la revoca anticipata degli eletti
immeritevoli. Ecco, il merito. Rappresenta l’unica giustificazione
del potere, e rappresenta al contempo la cerniera fra eguaglianza e
libertà: l’eguale libertà di diventare diseguali, in base ai
propri sforzi, nonché ai talenti che ciascuno ha ricevuto in sorte.
Ma l’eguaglianza radicale di cui ci stiamo innamorando noi italiani
ne è l’antitesi, il rovescio. Perché appiattisce i meriti, e
perciò salva i demeriti.
L’IMMUNITA’ AI NUOVI SENATORI: IMPUNITA’ O SALVAGUARDIA DELLA SOVRANITA’ DEL PARLAMENTO?
Mario Gorlani
C’è polemica anticasta
e polemica anticasta, e quella che molti – il Fatto Quotidiano di
Travaglio in prima fila – hanno sollevato contro l’emendamento
che ha proposto di riconoscere anche ai componenti del “nuovo”
Senato le stesse immunità che l’art. 68 Cost. riconosce ai
deputati, appare francamente incomprensibile e fuorviante.
L’immunità
parlamentare è un istituto antico e comune a tutti gli ordinamenti,
il cui scopo era (ed è) quello di salvaguardare la sovranità delle
Camere e la loro funzionalità e metterle al riparo da un uso
strumentale di talune misure restrittive della giustizia penale da
parte del potere giudiziario, che potrebbe alterare gli esiti di
fondamentali deliberazioni. In Italia, come ben sappiamo, l’immunità
è stata abusata oltre ogni dire da una classe politica che l’ha
trasformata, spesso e volentieri, in un ingiustificato privilegio per
sottrarsi alle sue gravi responsabilità penali.
Proprio per questo nel
1993 – in piena Tangentopoli - l’art. 68 Cost. è stato
riformato, abolendo l’istituto dell’autorizzazione a procedere e
lasciando in vita soltanto l’autorizzazione per l’arresto
cautelare (salvo la flagranza di reato e l’esecuzione di una
sentenza definitiva di condanna), per le perquisizioni e per le
intercettazioni. Oggi i parlamentari, se commettono reati, possono
essere indagati, rinviati a giudizio, processati, condannati e infine
incarcerati, senza necessità di alcuna autorizzazione, come
d’altronde è successo a Dell’Utri, a Cuffaro o allo stesso
Berlusconi (anche se a lui il carcere è stato “generosamente”
risparmiato), solo per citarne alcuni. L’unica cosa che, in
sostanza, la magistratura non può fare senza autorizzazione della
Camera di appartenenza, è arrestare un parlamentare, perquisirne
l’abitazione o utilizzare sue telefonate eventualmente
intercettate.
Davvero c’è qualcuno
che, sull’onda di un diffuso e populista sentimento anticasta,
avverte questa esigenza nei confronti dei futuri senatori? La misura
della custodia cautelare non dovrebbe essere, in un ordinamento
costituzionale che fa della garanzia della libertà personale uno dei
suoi irrinunciabili capisaldi, una misura estrema, da applicare
soltanto nel rigoroso rispetto dei presupposti di legge (pericolo di
fuga, rischio di inquinamento delle prove, pericolo di reiterazione
del reato)? Spesso, però, non è così: la custodia cautelare viene
applicata – o chiesta, nei confronti dei parlamentari – per pochi
giorni o settimane, senza alcuna utilità pratica che non sia quella
di ottenere dall’indagato una confessione o di spettacolarizzare
un’inchiesta che, diversamente, non assurge agli onori delle
cronache e che poi si perde per anni nei corridoi dei Palazzi di
Giustizia prima di approdare – sempre che ci approdi davvero – al
dibattimento o anche solo all’udienza preliminare.
Se così è, anziché
cavalcare il facile gioco di parole dell’immunità che diventa
impunità, sognando arresti cautelari ad ogni notizia di reato,
perché non attendersi dalle Procure, se hanno in mano elementi di
responsabilità dei parlamentari, che ne chiedano senza ritardo il
rinvio a giudizio, per puntare ad una vera sentenza di condanna, e
non soltanto a qualche giorno in carcere e alla gogna mediatica?
Tanto più che, con la sacrosanta legge Severino, soltanto con la
condanna, e non certo con il solo arresto cautelare, il parlamentare
viene estromesso dalla vita politica per 6 anni!
Il che non significa che
le immunità come sono disciplinate oggi non possano essere oggetto
di qualche revisione, ad esempio investendo la Corte costituzionale,
come è stato proposto, del potere di concedere o negare
l’autorizzazione, o escludendo dal loro perimetro perquisizioni e
intercettazioni, che costituiscono spesso preziosi strumenti di
indagine.
Significa soltanto
continuare a credere nella centralità della funzione del Parlamento,
anche del futuro Parlamento asimmetrico che le Camere stanno
discutendo in questi giorni; significa credere che Camera e Senato,
anche se con ruoli non più paritari, debbano vedersi riconoscere una
analoga posizione costituzionale, anche in relazione allo status
dei loro componenti; significa infine pensare che altre sono le
“battaglie” da fare nel percorso riformatore intrapreso dal
governo Renzi, come quella di dare al futuro Senato un ruolo più
incisivo nell’attività legislativa che interessa le Regioni, o
quella di scrivere una legge elettorale che non insegua il mito della
governabilità a tutti i costi, ma trovi un giusto punto di
equilibrio tra rappresentanza e semplificazione del quadro politico.
venerdì 27 giugno 2014
Vanno, vengono, ogni tanto si fermano...
«In Europa è stata vinta una battaglia di metodo e di sostanza, ma ora è il
momento di fare le cose in Italia. Bisogna correre e con
determinazione».
«Io trovo molto sorprendente che tutte le volte che c’è il tentativo di fare una battaglia in Europa, uno non fa in tempo a prendere l’aereo che una parte del suo partito, una minoranza, riapre discussioni che sembravano chiuse. È un atteggiamento che si giudica per quello che è e che non ha bisogno di parole ulteriori».
«Io trovo molto sorprendente che tutte le volte che c’è il tentativo di fare una battaglia in Europa, uno non fa in tempo a prendere l’aereo che una parte del suo partito, una minoranza, riapre discussioni che sembravano chiuse. È un atteggiamento che si giudica per quello che è e che non ha bisogno di parole ulteriori».
Matteo Renzi
conferenza stampa di chiusura del consiglio europeo a Bruxelles
27 giugno 2014
Maronate...
Come buttare dalla finestra 30 milioni di Euro
La giunta regionale ha stanziato 30
milioni per organizzare un referendum consultivo sulla trasformazione
della Lombardia in una Regione a statuto speciale con tutti i
vantaggi che ne deriverebbero. Sarebbe un po’ come chiedere agli
elettori se preferiscono essere ricchi e sani o poveri e malati.
Peccato che non basti un referendum: servirebbe infatti una modifica
della Costituzione votata dal Parlamento con maggioranza qualificata
e doppia lettura. Dice il capogruppo del Pd Enrico Brambilla: «Ci
sono molti modi migliori per spendere quei soldi: politiche sociali,
scuole, taglio dei ticket sanitari. Non si possono buttare via così
30 milioni». Come dargli torto?
Uccisa a Bengasi un’attivista per i diritti umani
INTERNAZIONALE 27 giugno 2014
L’avvocata per i diritti umani Salwa Bughaghis è stata assassinata la
sera del 25 giugno nella sua casa di Bengasi, in Libia. Un gruppo di
uomini armati e in divisa è entrato nell’abitazione sparando e ha ucciso
la donna con un colpo alla testa. In casa c’era anche il marito, Issa,
che ora è irrintracciabile.
Bughaghis era nota in tutto il paese e a livello internazionale per
la sua attività in difesa dei detenuti politici durante il regime di
Muammar Gheddafi. Nel 2011 aveva partecipato alle manifestazioni che
avevano portato alla caduta di Gheddafi e in seguito aveva fatto parte
del Consiglio nazionale di transizione, diventando vicepresidente della
commissione preparatoria per il dialogo nazionale. Per tutte le sue
attività politiche e civili, nel 2012 aveva ottenuto il premio della
Vital voices global leadership, una fondazione legata a Hillary Clinton.
Più recentemente si era espressa apertamente criticando le azioni
terroristiche delle milizie armate che controllano gran parte della
Libia.
Poco prima di essere uccisa Bughaghis aveva
votato alle elezioni legislative e aveva pubblicato su Facebook le sue
foto al seggio.
Papa Francesco ....il leninista
L'Economist attacca Papa Francesco: "È un leninista"
A scatenare le ire dell'Economist,
il settimanale finanziario fondato nel 1843 con l'esplicito scopo di
"sostenere la causa del liberismo", sono state le parole di Papa
Francesco rilasciate in un'intervista al quotidiano catalano La
Vanguardia: "Stiamo scartando una generazione intera per tenere in vita
un sistema economico che non si regge più. Questo è un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra
(...) Si producono e si vendono armi, e così le grandi economie
mondiali si risanano sacrificando l’uomo all’idolatria del denaro".
Il capitalismo causa delle guerre? Non sia mai!
L'Economist non può tollerare che certe tesi circolino - addirittura per
bocca del Pontefice - e così decide di passare al contrattacco:
"Dichiarando un collegamento diretto tra capitalismo e guerra, sembra
prendere una linea ultra-radicale: una linea che – consapevolmente o
meno – segue quella proposta da Vladimir Lenin nella
sua analisi di capitalismo e imperialismo e di come siano stati la causa
dello scoppio della Prima guerra mondiale, un secolo fa".
Nel seguito i toni si fanno un po' meno estremi, anche se il tono
condiscendente con cui l'Economist tratta Bergoglio ("non certo un
intellettuale come Ratzinger") potrebbe far storcere il naso a molti.
Anche perché non è detto che il parlar semplice di Francesco significhi
che alla base non ci sia una solida competenza teorica. Il settimanale
di Londra infatti prosegue: "Il suo approccio è legato all’intuito e le
sue affermazioni possono anche essere sagge. Francesco potrà anche non
offrire tutte le risposte o analizzare le cose in modo corretto, ma sta
ponendo le domande giuste, come il ragazzino che osserva l’imperatore nudo".
Papa Francesco aveva già risposto a critiche del genere, spiegando come il suo non fosse comunismo, ma Vangelo.
La rivoluzione di Francesco: ascoltare il suo Popolo.
Corriere della Sera 27/06/14
Marco Garzonio
Quando, dopo la sua elezione, papa
Francesco indisse due Sinodi sulla famiglia, uno per quest’anno e
l’altro in programma per il prossimo, si son capite almeno tre
cose.
La prima: che per il Pontefice la sfera delle relazioni
affettive è centrale: se davvero la Chiesa intende recuperare un
dialogo con il mondo non in astratto deve calarsi nei vissuti
oltreché nei comportamenti delle persone. La seconda: che
altrettanto fondamentale per il pontefice è ascoltare che cosa dice
la gente, a cominciare dalle comunità cristiane sparse per il mondo,
in particolare dalle «periferie» da cui lui stesso proviene
oltreché dai Paesi più avanzati e ormai secolarizzati, dai
sacerdoti in prima linea con le domande pressanti dei costumi che
cambiano, delle povertà che condizionano anche le scelte etiche,
delle trasformazioni profonde nei riferimenti culturali e ideali. La
terza: che Francesco alla fine è uno che parla liberamente e decide,
ma prima vuole documentarsi, conoscere, condividere con vescovi e
cardinali, allargando il governo della Chiesa, come ha fatto con la
Commissione degli otto cardinali che lo affiancano.
Il
questionario inviato a 114 Conferenze Episcopali mondiali per
conoscere situazioni e valutazioni in vista del Sinodo e
l’Instrumentum laboris , il documento preparatorio dell’Assemblea
rappresentano il riscontro esterno di quanto gli orientamenti
pastorali del Papa si apprestino a fare breccia nell’opinione
pubblica della Chiesa e in quella laica. Dai testi si nota la
preoccupazione di usare misericordia, di vedere caso per caso, di
portare allo scoperto argomenti non più tabù (contraccezione,
comunione ai divorziati, battesimi ai figli di persone non sposate,
unioni di fatto etero e omosessuali). E si nota un atteggiamento
fondato su proposte, non su imposizione, sull’accompagnamento,
sull’invito, sulla sollecitazione non su condanne ed
espulsioni.
Il rischio di questa fase è che il clamore dei
media e le attese diffuse possano creare aspettative eccessive e da
mettere in difficoltà il Magistero e lo stesso Papa, finendo per
dare fiato alle resistenze interne di molta conservazione sinora
sopita, come s’è visto nei mesi scorsi quando il cardinale Kasper,
molto vicino al Pontefice e da questi assai apprezzato ha espresso
apertura a proposito della comunione ai divorziati.
Se si vuol
intendere che cosa sta accadendo attorno a San Pietro, occorre
prudenza e visione d’assieme. Dagli atteggiamenti che mostra e
dagli interventi che svolge emerge che Francesco sta cambiando la
Chiesa e i rapporti di questa con la società, la cultura, la
politica non perché si distacca visibilmente da taluni contenuti
cari alla dottrina. La «rivoluzione» di Francesco a proposito di
morale sessuale, famiglia, matrimonio è soprattutto di approccio,
stile, metodo. È in termini di attenzione, sensibilità, vicinanza
senza pregiudizi che dal Vaticano spira aria fresca e nuova. Chi, ad
esempio, cerca di strappare dalle sue parole, dai suoi collaboratori,
dai testi concessioni e riconoscimenti a situazioni quali le coppie
di fatto, sia etero che omosessuali, compie autentiche forzature;
applica criteri politico-ideologici o, addirittura, proietta sul
Pontefice le proprie aspettative. Perché ad esempio un conto è
prendere atto della realtà e di tutelare dei diritti, un altro è
riconoscere le unioni e dare ad esse valore di matrimonio. Certo, non
si era mai sentito un papa dire: «Chi sono io per giudicare un gay»;
o raccontare di quando, arcivescovo di Buenos Aires, si sentì
confidare da una bimba che la fidanzata della mamma non le voleva
bene; oppure, ancora, come ha fatto nei mesi scorsi nell’intervista
al Corriere , liquidare affermazioni tipo «valori non negoziabili»
che per anni hanno caratterizzato l’azione pastorale della Cei e
connotato una vicinanza della gerarchia con posizioni di centro
destra, perché sostenne «i valori o sono valori o non lo sono». È
una Chiesa che non ha paura della realtà e della vita, che dà nome
alle cose, che si interroga, che se necessario fa autocritica. Ma,
almeno sino ad oggi, non sembra che ci si trovi di fronte a una
Chiesa disposta, in termini di principio, ad abdicare su molti dei
fronti in cui sono coinvolti i sentimenti, l’amore, gli affetti, le
scelte di vita.
Cooperazione allo sviluppo, Tonini: Una riforma necessaria
Vita, 26 giugno 2014
di Daniele Biella
Dopo l'ok di ieri al Senato, per cambiare la legge in vigore dal 1987 manca solo il passaggio alla Camera, che avverrà a cavallo dell'estate. "Si riparte con tante, fondamentali, novità", indica il relatore Giorgio Tonini, intervistato da Vita.it
Cooperazione internazionale, questa volta si cambia per davvero. Entro
la fine dell'estate la legge 49 datata 1987 andrà in archivio,
sostituita da una riforma che il settore attende da almeno un decennio. "E'
cambiato il mondo, una nuova legge è più che necessaria", ragiona il
deputato del Pd Giorgio Tonini, relatore del nuovo impianto legislativo.
Che ieri 25 giugno 2014 il Senato è stato approvato dal Senato, e ora
vedrà il alla Camera, dove si prospetta il via libera tra fine luglo e
le prime settimane di settembre.
Le forze politiche sono finalmente pronte al cambiamento?
Sì. Il voto in Senato lo dimostra: 201 parlamentari a favore, di Pd, Ncd, centristi e Fi, 15 astenuti, di Lega e Sel, e nessun voto contrario. C'è l'accordo politico sul tema, quindi presumo che alla Camera il testo procederà spedito e senza brutte sorprese.
Sì. Il voto in Senato lo dimostra: 201 parlamentari a favore, di Pd, Ncd, centristi e Fi, 15 astenuti, di Lega e Sel, e nessun voto contrario. C'è l'accordo politico sul tema, quindi presumo che alla Camera il testo procederà spedito e senza brutte sorprese.
La convergenza politica è cosa rara, quali sono i pilastri della riforma che hanno portato all'accordo?
Un approccio del tutto diverso al modo stesso di fare cooperazione allo sviluppo. Dalla logica dell'aiuto della legge precedente (ottima, ma riferita a quello specifico periodo storico), si passa a un convinto partenariato con i paesi di riferimento. Il punto di partenza è che non esistono più un Primo o un Terzo mondo, perché ora vi sono parecchi paesi emergenti dove aree economicamente forti si affiancano a territori disperati, come accade in India o in diversi paesi dell'Africa. Il primo pilastro della riforma è l’allargamento di chi è invitato a cooperare: in primo piano rimangono nel ong, organizzazioni non governative, quindi il non profit, ma ora entra in scena il profit.
Un approccio del tutto diverso al modo stesso di fare cooperazione allo sviluppo. Dalla logica dell'aiuto della legge precedente (ottima, ma riferita a quello specifico periodo storico), si passa a un convinto partenariato con i paesi di riferimento. Il punto di partenza è che non esistono più un Primo o un Terzo mondo, perché ora vi sono parecchi paesi emergenti dove aree economicamente forti si affiancano a territori disperati, come accade in India o in diversi paesi dell'Africa. Il primo pilastro della riforma è l’allargamento di chi è invitato a cooperare: in primo piano rimangono nel ong, organizzazioni non governative, quindi il non profit, ma ora entra in scena il profit.
Le aziende nella cooperazione internazionale?
Sì, perché essa innesta sviluppo, e qui può entrare in scena il mondo aziendale, naturalmente con determinate regole che partono da un comportamento fair, equo e solidale. Quindi si assisterà a un doppio protagonismo, quello classico delle ong e quello del profit.
Sì, perché essa innesta sviluppo, e qui può entrare in scena il mondo aziendale, naturalmente con determinate regole che partono da un comportamento fair, equo e solidale. Quindi si assisterà a un doppio protagonismo, quello classico delle ong e quello del profit.
Quali sono gli altri punti base del nuovo testo?
Il cambio di rotta a livello economico dell’Italia. Abbiamo assistito per anni a una diminuzione dei fondi destinato alla cooperazione allo sviluppo, e mancheremo del tutto l’obiettivo proposto dall’Onu di arrivare allo 0,7 per cento del Pil da destinare alla cooperazione: ora, seppur in risalita dal governo Monti in poi, sfioriamo lo 0,2 per cento. La riforma ci impegna a impostare un piano di rientro certo, che può durare anche un decennio, ma che raggiunga senza indugi il traguardo dello 0,7 per cento.
Il cambio di rotta a livello economico dell’Italia. Abbiamo assistito per anni a una diminuzione dei fondi destinato alla cooperazione allo sviluppo, e mancheremo del tutto l’obiettivo proposto dall’Onu di arrivare allo 0,7 per cento del Pil da destinare alla cooperazione: ora, seppur in risalita dal governo Monti in poi, sfioriamo lo 0,2 per cento. La riforma ci impegna a impostare un piano di rientro certo, che può durare anche un decennio, ma che raggiunga senza indugi il traguardo dello 0,7 per cento.
Cambierà anche l’organizzazione dell’intervento umanitario italiano?
In modo radicale. Destiniamo ‘solo’ lo 0,2 per cento, che comunque ammonta a ben 3 miliardi di euro, e lo destiniamo male, ovvero in maniera frammentaria, tra mille rivoli e progetti diversi che mancano di un coordinamento centrale. Mi spiego meglio: oggi almeno il 60 per cento della quota italiana va per azioni multilaterali, ovvero ad agenzie di Onu, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, e naturalmente Unione europea. Di questi soldi non seguiamo minimamente il corso, manca un raccordo stabile tra i due ministeri maggiormente coinvolti, il Mae, Ministero affari esteri e il Mef, Ministero dell’Economia e delle finanze. Per quanto riguarda invece la cooperazione bilaterale, alla quale il Mae rivolge solo un decimo dell’ammontare complessivo, la situazione è ancora più confusa: oltre ai progetti di tale ministero ci sono quelli del ministero dell’Ambiente, del Miur, Ministero istruzione università e ricerca, del Beni culturali, della Difesa e persino degli Interni. Tutte azioni lodevoli, sia chiaro, ma autonome e quindi scollegate fra loro.
In modo radicale. Destiniamo ‘solo’ lo 0,2 per cento, che comunque ammonta a ben 3 miliardi di euro, e lo destiniamo male, ovvero in maniera frammentaria, tra mille rivoli e progetti diversi che mancano di un coordinamento centrale. Mi spiego meglio: oggi almeno il 60 per cento della quota italiana va per azioni multilaterali, ovvero ad agenzie di Onu, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, e naturalmente Unione europea. Di questi soldi non seguiamo minimamente il corso, manca un raccordo stabile tra i due ministeri maggiormente coinvolti, il Mae, Ministero affari esteri e il Mef, Ministero dell’Economia e delle finanze. Per quanto riguarda invece la cooperazione bilaterale, alla quale il Mae rivolge solo un decimo dell’ammontare complessivo, la situazione è ancora più confusa: oltre ai progetti di tale ministero ci sono quelli del ministero dell’Ambiente, del Miur, Ministero istruzione università e ricerca, del Beni culturali, della Difesa e persino degli Interni. Tutte azioni lodevoli, sia chiaro, ma autonome e quindi scollegate fra loro.
Cosa propone in questo senso la riforma?
Una cabina di regia centrale. Che manterrà il pluralismo, ma che coordinerà meglio la situazione complessiva. Sarà affidata al Mae, che tra l’altro cambierà dicitura diventando Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, avrà un viceministro ad hoc e preparerà un programma triennale approvato dal Consiglio dei ministri. Si tratta di una vera e propria agenzia pensata come un bracco operativo unitario per la fase attuativa dei progetti, un collettore unico che collaborerà attivamente con tutte le realtà coinvolte: gli enti pubblici, le ong, i privati.
Una cabina di regia centrale. Che manterrà il pluralismo, ma che coordinerà meglio la situazione complessiva. Sarà affidata al Mae, che tra l’altro cambierà dicitura diventando Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, avrà un viceministro ad hoc e preparerà un programma triennale approvato dal Consiglio dei ministri. Si tratta di una vera e propria agenzia pensata come un bracco operativo unitario per la fase attuativa dei progetti, un collettore unico che collaborerà attivamente con tutte le realtà coinvolte: gli enti pubblici, le ong, i privati.
Il non governo dei magistrati.
Corriere della Sera 27/06/14
Chi ottimisticamente non credeva che al
Consiglio superiore della magistratura(Csm) una settimana fa potesse
davvero «finire così», cioè a tarallucci e vino sullo scontro
senza precedenti tra capo e vice alla Procura di Milano, dopo la
pilatesca non-scelta del Csm ora non può credere che possa
«continuare così»: cioè a piatti in testa ogni giorno, a colpi di
circolari di Bruti Liberati che svuotano Robledo e di nuovi esposti
al Csm di Robledo contro Bruti Liberati, per la gioia degli indagati
(sinora nelle inchieste Sea, Expo e firme false) che si tuffano nelle
contraddizioni regalate loro.
A parziale discarico dei pubblici
ministeri milanesi va però osservato che il silenzio imbarazzato
dell’intera categoria dei magistrati e l’impasse dei propri
meccanismi di controllo sembrano stare facendo di tutto per
disorientare i cittadini, intaccare un ventennale capitale di
credibilità nella Procura italiana faro di indipendenza e capacità,
indebolire la profondità delle indagini, e rendersi incomprensibili
agli operatori stranieri che guardano a Expo 2015.
Da tre mesi i
magistrati, di solito sensibili alle minacce alla propria
indipendenza sia esterna sia interna, mettono la testa sotto la
sabbia per fingere di non vedere quanto sia cruciale sciogliere il
nodo dei poteri e doveri dei capi degli uffici giudiziari alla luce
dei frutti avvelenati della gerarchizzazione delle Procure in base
alle norme del 2006/2007. Le correnti, concentrate invece sulle
elezioni per il rinnovo del Csm il 6 e 7 luglio, non fanno che
strumentalizzare l’appoggio a priori a Bruti o a Robledo solo per
contrapposti interessi di bottega. Fino al punto che al fondamentale
autogoverno della magistratura abdica proprio chi dentro
l’istituzione Csm, invece di incarnarlo, o non si è trattenuto
dall’invocare l’interferenza esterna di una ispezione del
ministero della Giustizia (dove è sottosegretario il capocorrente di
chi la chiedeva pro-Robledo), o ha chinato il capo all’inopportuna
anticipazione di giudizio pro-Bruti palesata a mezzo stampa dal
vicepresidente Vietti dopo un incontro con il capo dello Stato. Così
come i primi a svalutare le conclusioni proposte dalle due
commissioni sono stati proprio i relatori che le avevano vergate,
precipitatisi a ritirarle e a depennare talune flebili critiche a
Bruti appena diffusasi la notizia dell’esistenza di una misteriosa
missiva del presidente della Repubblica a Vietti: lettera di cui un
uso improprio e ambiguo è stato consentito dal rifiuto di Vietti di
leggerla ai consiglieri del Csm perché «allo stato non
ostensibile».
Ora questo Csm sta per scadere, il prossimo sarà
operativo solo dopo l’estate, e anche il procuratore generale della
Cassazione annuncia che su eventuali rilievi disciplinari deciderà
nulla sino a settembre. Tutti continuano a non avere fretta, magari
coltivando il retropensiero che tanto, a sciogliere la convivenza
forzata tra Bruti e Robledo, arrivi il pensionamento anticipato del
quasi settantenne Bruti ben prima dei prossimi 4 anni di dirigenza: o
a dicembre 2015 con la deroga accreditata dall’interpretazione del
Csm, o già a ottobre 2014 senza deroga secondo il criterio adottato
dalla Ragioneria dello Stato per calcolare gli oneri della norma. Ma
con la quotidianità di indagini delicate che non possono aspettare
Godot, e con in ballo il destino di Expo 2015, sarà una pericolosa
illusione delegare solo al tempo che passa quella parola chiara
sinora non pronunciata dalle istituzioni preposte a dirla.
Berlusconi e quell’accusa di vanità a Montanelli
Corriere della Sera 27/06/14
In un’intervista a il Giornale in
occasione dei quarant’anni della testata, Silvio Berlusconi, che ne
fu editore, parla anche di Indro Montanelli. Dice: «Montanelli,
certamente il più grande giornalista italiano, come tutti i grandi
aveva insospettabili debolezze. Una di queste era la vanità.
Intendiamoci, con tutto quello che aveva fatto nella vita poteva ben
permettersi di essere vanitoso. Però questo non sempre lo rendeva
sereno nei giudizi». È interessante che Berlusconi parli di vanità,
proprio lui che è tanto schivo nel vantare i suoi successi e tanto
restio nel far valere i suoi primati, che per modestia quando parla
di sé preferisce dire noi.
giovedì 26 giugno 2014
Prego...accomodatevi
Bossi
Umberto (Presidente della Lega) e i figli a processo, per una storiaccia di rimborsi elettorali e soldi
usati a fini privati. Ve li ricordate i primi tempi della Lega.
Aggressivi. Sprezzanti. L'unità nazionale sembrava a rischio.
E' lungo l'elenco dei soldi prelevati dai conti del partito, allora usato come un bancomat, per lo shopping e le spese private dell'ex segretario della Lega e dai suoi due figli. Elenco messo nero su bianco nella richiesta di processo.
E' lungo l'elenco dei soldi prelevati dai conti del partito, allora usato come un bancomat, per lo shopping e le spese private dell'ex segretario della Lega e dai suoi due figli. Elenco messo nero su bianco nella richiesta di processo.
Ecco,
signori Bossi: ora accomodatevi in tribunale, e dite che ne avete fatto dei
nostri quattrini.
Riccardo Imberti
Il 26 Giugno 1967 moriva don Lorenzo Milani.
"il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco,
installato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta,
quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l'unico
grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perchè
il regno dei cieli è loro. Quel giorno io non resterò con te, io
tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti
al mio signore crocifisso."
Don Lorenzo Milani. Una vita breve ma intensa
di Michele Gesualdi
Presidente della Fonazione Don Milani di Barbiana
Don Lorenzo era uno di quegli uomini
che, per le sue scelte nette e coerenti, le sue rigide prese di
posizione, il linguaggio tagliente e preciso, la sua logica
stringente di ragionare e argomentare, si tirava facilmente addosso
grandi consensi o grandi dissensi con schieramenti preconcetti che
hanno spesso offuscato la sua vera dimensione.
Su di lui è stato detto e scritto
molto, sono state fatte opere teatrali e quattro films, però resta
ancora molto da scoprire sopratutto in quella dimensione religiosa
che è l’aspetto fondamentale di tutta la sua vita e delle sue
opere.
Non è possibile capire appieno don
Lorenzo e i motivi delle sue scelte se, quando ci si avvicina a lui,
non si tiene sempre presente che era un prete e un prete che aveva
deciso di servire Dio nel modo più completo, dopo che da adulto si
era convertito al cristianesimo. Tutto il suo operato successivo va
ricondotto a questa scelta.
La sua vita è stata breve ma intensa.
A 20 anni (improvvisamente) abbandonò
il mondo borghese raffinato e colto a cui apparteneva la sua famiglia
ed entrò in Seminario. I suoi, pur restando sconcertati e soffrendo
del “colpo di testa” di questo loro figlio che consideravano
molto promettente, non lo ostacolarono.
Appena entrato in Seminario cominciò
energicamente a sopprimere il suo “IO” del passato, i 20 anni che
lui considerava “passati nelle tenebre”. Ogni suo atto cercava di
renderlo coerente con il Vangelo drasticamente, senza mezze misure.
Aveva lasciato gli agi ed i privilegi
dei borghesi, la loro cultura ed il loro mondo per un’altra scelta
di campo: servire il Vangelo, il Cristo, tentare cosi di salvarsi
l’anima stando dalla parte giusta dei poveri, cioè degli ultimi
nella scala gerarchica, cercare di conoscerli da vicino, di viverci
insieme, di imparare la loro lingua, insegnargliene un’altra,
condividere le loro cause, difendere le loro ragioni.
Per lui prete l’ingiustizia sociale
era un male e andava combattuto perché offendeva Dio.
Ordinato sacerdote a 24 anni fu mandato
a San Donato a Calenzano come cappellano del vecchio proposto, don
Daniele Pugi.
Calenzano era già allora nel 1947 un
paese in via di industrializzazione (aveva 1300 abitanti, oggi ne ha
16.000); la sua popolazione aumentava ed il vecchio Proposto non ce
la faceva più a reggere la parrocchia. Espose al Cardinale la
necessità di avere un cappellano, ma non sapeva come fare a pagarlo.
Il Cardinale rispose: “ho quest’anno un giovane prete, non ha
nessuna pretesa, e vuole vivere poveramente: un certo don Lorenzo
Milani”.
Don Lorenzo arrivò a Calenzano pieno
di entusiasmo come colui che ha trovato il senso della propria vita:
finalmente poteva mettersi al servizio del suo prossimo e restituire
quanto per 20 anni aveva ricevuto.
All’inizio cercò di avvicinare i
giovani alla Chiesa col gioco del pallone, il ping pong e il circolo
ricreativo come facevano gli altri preti. Presto però si rese conto
che non solo avvicinava una sola parte di giovani ma,
soprattutto, che era indegno e puerile per un prete di Cristo
abbassarsi a questi mezzi per evangelizzare, ma al contrario proprio
la mancanza di cultura era un ostacolo alla evangelizzazione e
all’elevazione sociale e civile del suo popolo.
Così un giorno il pallone e gli
attrezzi del ping pong finirono in fondo a un pozzo che era in mezzo
al cortile della canonica e don Lorenzo organizzò una scuola serale
per giovani operai e contadini. “La scuola era il bene della classe
operaia, la ricreazione la rovina; bisognava che i giovani con le
buone o con le cattive capissero la differenza e si buttassero dalla
parte giusta”.
Per lui prete la scuola era il mezzo
per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito
dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la
parola ai poveri perchè diventassero più liberi e più eguali, per
difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello
sciopero. Con quella tenacia di cui era capace quando era convinto di
avere intuito una verità andò a cercare uno ad uno tutti i giovani
operai e contadini del suo popolo. Entrò nelle loro case, sedette ai
loro tavoli per convincerli a partecipare alla sua scuola perchè
l’interesse dei lavoratori, dei poveri non era quello di perdere
tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone, ma di
istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale.
“Voi – diceva – non sapete
leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare
come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole
così perchè chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale
è oggi e sarà domani dominatore del mondo”. Aveva una dialettica
e una capacità di leggere dentro straordinaria. Riusciva a
toccare e far vibrare le corde più sensibili di ognuno.
Nella sua scuola raccolse giovani
operai e contadini di ogni tendenza politica, presenza che mantenne e
ampliò perchè dimostrò di servire la verità prima di ogni altra
cosa: “vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio
unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità
di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori,
perchè la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le
sigarette”, disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola a
Calenzano. Una scuola dove l’impegno sindacale e quindi l’impegno
sociale era considerato come un preciso dovere a cui un lavoratore
cristiano non poteva sottrarsi. Attraverso la scuola ed i suoi
giovani conobbe i veri problemi del popolo. Entrò nelle famiglie
come uno di loro pronto a dare un aiuto su qualunque questione.
Quando licenziarono Mauro da una
tessitura di Prato, non avevano licenziato solo uno del popolo, ma il
“suo” Mauro del quale per mezzo della scuola e le discussioni che
venivano fatte ogni sera fino a tarda notte, conosceva tutto:
famiglia, problemi, gioie e disperazioni. Così a quel licenziamento
reagì con tutto il peso del suo pensiero e della sua parola. Per
giorni interi si discusse a scuola con sindacalisti, magistrati e
ispettori del lavoro su come reagire, come impedire una ingiustizia
così grave.
Operava per far prendere coscienza ai
giovani operai sulla necessità che divenissero protagonisti del loro
futuro rifuggendo da schieramenti preconcetti, ma distinguendo sempre
il vero dal falso. Ragionando sempre con la propria testa.
Era severo nei propri comportamenti e
richiedeva ai giovani coerenza tra idee, parole e comportamento
pratico, senza mai rinunciare alla gioia di dire sempre la verità e
di vivere senza nessun formalismo.
La sua scuola accoglieva solo operai e
contadini, perchè intendeva eliminare la differenza culturale che
esisteva tra questi e altri strati sociali. Per questo la definiva
scuola classista, nel senso cioè di scelta dei poveri.
Questo suo schieramento, sempre
giustificato alla luce del Vangelo, era un aspetto costantemente
presente nella sua attività scolastica e pastorale che trapelava
continuamente.
Un giorno un ragazzo di solida famiglia
cattolica gli disse: “ma lei insegna anche a lui che è comunista e
dichiarato nemico della Chiesa? Io gli insegno il bene – rispose –
gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere
comunista, sarà un comunista migliore.”
E a Pipetta, il giovane comunista che
gli diceva “se tutti preti fossero come Lei, allora …”,
rispondeva: “il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di
qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia del ricco,
ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente
potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di
Cristo, beati i poveri perchè il regno dei cieli è loro. Quel
giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa
e puzzolente a pregare per te davanti al mio signore crocifisso.”
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